Se fosse solo una questione di cambio, di quanto si dovrebbe rivalutare lo yuan per eliminare il vantaggio di costo di cui gode la manifattura dell’«Impero di Mezzo»? Produrre in Cina costa meno della metà del costo di produzione europeo – e con una qualità a tendere simile. Davvero si pensa che una rivalutazione del 5% o del 10% dello yuan verso l’euro possa riportare la domanda verso gli opifici europei? Una rivalutazione dello yuan del 5%, insieme con un’esplosione salariale – poniamo pure del 20% – davvero porterebbe i costi cinesi così in alto da riesumare gli opifici europei? Considerazioni analoghe valgono per gli Stati Uniti.
Ammettiamo (sospendendo i dubbi) che il cambio della moneta cinese, libero di fluttuare, sia in grado di azzerare il saldo della bilancia dei pagamenti correnti cinese. Si deduce che i cinesi non sarebbero più tenuti a comprare con la loro banca centrale attività in dollari per pareggiare la domanda e l’offerta, che, come abbiamo visto, oggi è debole sul primo dei rasoi della forbice. Le attività in dollari finora comprate dai cinesi – sostanzialmente il debito pubblico statunitense – dovrebbe perciò cominciare ad attrarre la domanda estera per le proprie virtù intrinseche, come se fosse un debito pubblico qualsiasi, e non perché è il massimo veicolo per tenere fermo il cambio della moneta cinese.
Ammettiamo (sospendendo i dubbi) che il cambio della moneta cinese sia davvero libero di fluttuare: allora si avrebbe un cambio che si forma a partire non solo dalle transazioni «reali» (merci e servizi), ma anche da quelle «finanziarie». I cinesi potrebbero arrivare a sospettare che non vivono in un paese in cui vige «la certezza del diritto», e potrebbero persino cercare di diversificare il proprio portafoglio, comprando sia beni mobili sia quelli immobili negli Stati Uniti.
Nell’ipotesi di un cambio libero, avremmo la banca centrale cinese che non compra attività finanziarie statunitensi, mentre i cinesi come privati le comprano. Lo yuan diverrebbe più forte per i mancati acquisti della banca centrale, ma più debole per la fuoriuscita dei capitali dalla Cina. Chi vuole la rivalutazione dello yuan non pensa che i cinesi potranno disporre liberamente dei propri denari, come accade a (quasi) tutti gli altri. Ossia, la moneta cinese sarà davvero più forte solo se i cinesi saranno meno liberi degli altri.
Conclusioni. La rivalutazione dello yuan non risolve il nodo del vantaggio cinese sui costi di produzione, indebolisce il debito pubblico statunitense e funziona a condizione che i cinesi – come privati – continuino ad avere i propri investimenti solo in Cina. Non sembra una gran cosa. Allora perché tanto clamore? L’annuncio della disponibilità cinese a lasciar fluttuare il cambio mostra, almeno dal punto di vista dei media, che si va verso il Governo del Mondo. Il quale Governo del Mondo è – per definizione – una cosa buona, e dunque la rivalutazione dello yuan va accolta con favore. Se gli Stati Uniti desiderano mostrare che possono convincere tutti a cooperare per il Governo del Mondo, perché i cinesi non dovrebbero accontentarli con una rivalutazione parziale?
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