All’inizio di questa indagine, non ci saremmo aspettati che la cronaca si mettesse a galoppare. D’alta parte, non si archivia una rivoluzione in appena due anni. Quanto è successo e quanto sta succedendo, al contrario, fa parte di una catena di eventi il cui ultimo anello non è ancora visibile. In queste ultime settimane, Il Cairo è passato dall’essere una megalopoli in fase di ricostruzione post-primavera araba, a epicentro di ennesimi scioperi contro un regime che sembra voler imitare quello precedente. Caduto Mubarak e fatta piazza pulita della Giunta militare, ora il presidente Morsi sta tentando di indossare gli stessi abiti del presidente autoritario, attribuendosi poteri illimitati. La crisi nella confinante Striscia di Gaza, dal canto suo, ha offerto l’opportunità all’Egitto di tornare a fare il mediatore nel processo di pace israelo-palestinese. Un’opportunità che Morsi ha scaltramente sfruttato per mostrarsi nuovamente duro con i suoi partner (e concorrenti) della Lega Araba e affidabile agli occhi del tradizionale alleato statunitense. L’Egitto è tornato quindi in possesso del suo ruolo di prima potenza del Medioriente? Troppo presto per dirlo.
Il Paese è lontano dalla stabilizzazione sociale. L’opposizione liberale, la magistratura e le organizzazioni non governative sono tutte schierate contro il presidente. La protesta in corso è volta ad abrogare la dichiarazione presidenziale che attribuisce poteri speciali a Morsi. Ogni sua decisione è stata dichiarata «esecutiva e inappellabile». E non soltanto per quanto riguarda la giustizia. Le toghe egiziane hanno sospeso ogni attività in tutte le corti e le procure fino a che non sarà ritirato il decreto. Da notare che la mossa del presidente non ha nulla di confessionale e non si limita alle questioni giudiziarie. Certo in questo ambito è probabile che sia stata presa per evitare indagini imbarazzanti sulle non troppo chiare attività della Fratellanza. La loro economia sommersa non è detto che sia materia di ricerca esclusiva di de Soto.
La folla egiziana è tornata nelle piazze quindi. Ci si sarebbe dovuti aspettare un rigurgito di contestazione. Magistrati e ong sono le ultime categorie ad aver scelto la strada dello sciopero. Prima i sindacati di Ain Sokna, sul Mar Rosso all’imboccatura del canale di Suez, poi i commercianti di Port Said, dopo ancora i medici degli ospedali pubblici (non quelli gestiti dalla Fratellanza), infine i giornalisti. Ogni categoria è stata mossa da rabbia e insoddisfazione assieme. Il mercato del lavoro egiziano si è sentito tradito da quelle istituzioni (parlamento, governo e presidente) che ha eletto nel corso di questo anno elettorale. Credendo di agire democraticamente. Ogni comparto produttivo ha avanzato le proprie richieste. Localistiche quelle dei commercianti di Port Said, che si sono visti limitare le licenze di attività solo ai prossimi due anni. Di valori e principi quelle dei media, legate ovviamente alla protesta della magistratura. Manifestazioni, queste, che si sono concentrate tutte nell’ultimo mese e mezzo.
Sciopero. Uno strumento di protesta che la Fratellanza Musulmana conosce bene. Nei trascorsi decenni di censura, il movimento ha sfruttato proprio la piazza per raccogliere consensi. Entrando nelle stanze dei bottoni, i Fratelli si sono resi conto che lo sciopero può essere visto anche da un’altra prospettiva. Ovvero dalle finestre dei palazzi del potere. Da lì, un qualsiasi leader pensa che lo sciopero debba essere contenuto. E, in extrema ratio, represso. Tuttavia, Morsi e il suo governo non sanno ancora come si faccia. Finora loro le manifestazioni le hanno promosse. Non vietate. L’Egitto non iscritto alla Fratellanza, quindi anti-corporativo e, guarda caso, laico, ha colto questo spaesamento.
Oggi l’Egitto sta affrontando uno scontro fra sindacati. O, se vogliamo, forze corporative di varia identità. Una ha vinto le elezioni e ha alle spalle una propria struttura parastatale. Gli altri gruppi appaiono più deboli. Ma sono anche più snelli. La Fratellanza musulmana, lo Stato nello Stato, non si è resa conto dello switch subìto. Non ha percepito di essere divenuta “Lo Stato”. I liberali, i sindacati laici e quelli di categoria, le rappresentanze di comparti produttivi nei quali i Fratelli non hanno alcun interesse si sono viste scippate la possibilità di migliorare davvero il proprio settore. Da un giorno all’altro, si sono trovate di fronte un nuovo Mubarak.
La loro protesta è stata mossa dal timore di vedersi cancellati i lavori in corso per la democratizzazione del Paese. La prima a cadere sopraffatta dalla paura è stata la Borsa del Cairo che, all’inizio di questa settimana, ha perso il 10%. La società civile egiziana ha avuto la sensazione che le riforme promesse dal presidente e per le quali era stato interpellato Hernando de Soto venissero improvvisamente interrotte (per l’argomento vedi le puntate precedenti I, II, III). Da qui gli scioperi.
Riepiloghiamo quindi. Per i Fratelli musulmani, l’ascesa al potere è apparsa come un’occasione per mettere in regola le proprie attività economiche. È un’operazione difficile, ma si può fare. Peccato però che Morsi, dopo aver chiamato de Soto, non abbia valutato le potenziali ripercussioni di immediato periodo che sono proprie a) di un Paese convalescente da una rivoluzione; b) di un processo di trasformazione economica “a doccia fredda”. C’è poco da fare. Gli scioperi andavano previsti. Ma a questi sarebbe dovuta giungere una replica esattamente contraria a quella adottata da Morsi. Quando ad Ain Sonka e Port Said si è tornati a manifestare, un mese fa circa, la Fratellanza avrebbe dovuto intuire in anticipo che la stretta autoritaria sulla magistratura avrebbe provocato ulteriori tensioni. Il presidente ha voluto mettere al guinzaglio i giudici senza calcolare che, se si vuole dominare un Paese, è necessario comportarsi all’inizio da governo fintamente liberale, per poi serrare le fila. Ma questo è il modus operandi dei rivoluzionari occidentali. Esempi storici che la Fratellanza tende a non seguire.
Per formulare previsioni o teorie, come si è detto, non è ancora il momento. La sola conclusione da trarre è che i Fratelli musulmani stanno dimostrando una forte incoerenza. La decisione di venire allo scoperto con la propria economia porta a due soluzioni. O i Fratelli si adeguano alle regole già scritte, oppure ribaltano il tavolo. Morsi sta prendendo la seconda strada. Questo però non significa adeguare la Fratellanza musulmana allo Stato egiziano. Bensì imporre a quest’ultimo le volontà della prima. Da qui una domanda: a che pro scomodare de Soto? E infine: l’opinione pubblica egiziana non sta reagendo bene. È comprensibile, non ha scatenato il caos nel 2011 per avere un altro faraone. Per giunta confessionale. Anche questo è bene che Morsi e soci se lo segnino. Perché la Fratellanza musulmana è transnazionale. Le sue succursali sono in Nord Africa, Giordania e Siria. Sarebbe seccante se in altri Paesi il consenso dei Fratelli musulmani locali venisse meno per gli errori della casa madre.
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