“La crisi ha mostrato che i mercati finanziari governano il mondo, e lo fanno male. I mercati finanziari fanno tutto, tranne che finanziare. Giocano, si dice. Ma il loro non è un gioco innocente, giacché impedisce anche agli altri di fare il proprio lavoro. Infatti, se la finanza non finanzia, le imprese non possono intraprendere e i lavoratori non possono lavorare” (1). Quanto appena citato sembra ovvio, anzi lodevole, ma non lo è.

Immaginiamo – in un mondo senza borse azionarie - un'impresa che voglia finanziare i propri investimenti in nuovi macchinari. Essa ha un capitale versato di 100 euro. Vara un aumento del capitale pari a 100 euro, emettendo 100 azioni del valore di un euro ciascuna. I risparmiatori lo sottoscrivono. L'investimento migliora le prospettive sia dell'impresa in questione (e dunque dei suoi azionisti, dei suoi occupati, e dello stato, perché, presumibilmente, pagherà più imposte) sia delle altre imprese, quelle che producono i macchinari. Si ha così un “circolo virtuoso”. In questo caso, la finanza ha svolto il proprio compito, che è quello di finanziare gli investimenti e non di “speculare”. Sembra banale, ma, come noto, il diavolo si nasconde nei dettagli.

Che ne sanno i sottoscrittori delle nuove azioni delle prospettive dell'impresa? Nulla, debbono, volenti o nolenti, fidarsi dei dirigenti e dei vecchi azionisti della stessa. Ovviamente, a loro sarà detto che ci sono delle “grandi opportunità” all'orizzonte. Esiste perciò un problema di conoscenza. Le due parte hanno una conoscenza diversa delle cose. Alcuni ne sanno di più, altri di meno. Una volta che i nuovi azionisti abbiano consegnato i propri denari (sotto forma di capitale di rischio) all'impresa, questa farà quello che vuole (ovviamente nella legalità, c'è il Collegio sindacale, ecc).

Supponiamo ora che il valore facciale dell'impresa sia pari a 200 euro (ossia sia eguale al capitale versato, vecchio e nuovo). Supponiamo poi che in media, e in un arco temporale ragionevole, l'impresa guadagni 10 euro (faccia dieci euro di profitto in media al netto delle imposte all'anno) e che distribuisca interamente il profitto in forma di dividendo. Il rendimento del suo capitale è quindi del 5% (10/200). Chi ha sottoscritto il capitale dell'impresa non è né scontento né contento, perché sui titoli di stato (l'investimento alternativo senza rischio) guadagna (sotto forma di cedola) il 5%.

Dunque chi ha sottoscritto ed è un azionista di minoranza 1) sa poco o nulla dell'impresa e 2) potrebbe anche non guadagnare abbastanza per coprire il rischio che il frutto della propria (naturale) ignoranza. L'impresa potrebbe, infatti, anche andar male e lui non lo verrebbe a sapere per tempo. Oppure anche, potrebbero esserci altre imprese con migliori prospettive (vere o presunte) nelle quali vorrebbe investire. Ecco allora la necessità dei mercati finanziari. Ci fossero, il nostro azionista insoddisfatto oppure desideroso di altri investimenti potrebbe vendere le sue azioni.

Le imprese, infatti, possono declinare o fallire nel corso dei decenni. Nell'indice Dow Jones c'è una sola impresa che c'era anche cento anni fa, mentre tutte le altre sono o declinate o fallite. Se uno non ha modo di uscire da un'impresa, perché non esistono i mercati finanziari (precisamente quelli secondari dove si scambiano i titoli emessi, mentre in quelli primari si sottoscrivono gli aumenti del capitale) investirebbe male i propri denari.

Se si accetta il principio che l'Individuo non deve essere risucchiato dalla Comunità, la difesa dei suoi denari va organizzata. Altrimenti detto, i denari individuali non “debbono” finanziare gli investimenti. Essi “possono” finanziarli, se le condizioni sono giudicate attraenti. Vale a dire i suoi denari sono liberi, proprio come i lavoratori, di “scioperare”. Dunque il denaro deve essere anche una “riserva di valore”, ossia non servire solo per gli scambi di merci e servizi e come numerario.

La conclusione è che i mercati secondari delle azioni possono non esistere solo a condizione che le imprese vadano tutte contemporaneamente bene. Solo in questo caso, infatti, l'azionista non rischia i propri denari e li investe in maniera ottimale. E' però un caso estremo e molto poco realistico. La finanza esiste proprio perchè le imprese non possono andare tutte e contemporaneamente bene. Si abbiano le fabbriche di candele e le nascenti fabbriche di lampadine. A meno di bloccare la diffusione delle lampadine (a meno di bloccare la diffusione della stampa on-line, si direbbe oggi), le fabbriche di candele andranno male, e così il loro capitale di rischio e i loro posti di lavoro. In questo caso, i capitali non sono più investiti nel mondo delle candele. Fossero investiti lo stesso, perché il risparmio “deve” essere investito, si avrebbe un'allocazione delle risorse inefficiente.

(1) http://www.linkiesta.it/blogs/altra-finanza/pensare-un-altra-finanza