Con Pechino non si scherza e l’Amministrazione Obama dovrebbe tenerlo bene a mente. Dall’equilibrio del G2 – America e Cina – dipende la tenuta dell’economia globale (1), e durante la convalescenza post choc finanziario non è una cosa da poco. Che gli obamiani siano goffi nel loro rapporto con Pechino non è una novità: il Segretario al Tesoro, Tim Geithner, appena insediato, ammonì la Cina a non manipolare ulteriormente lo yuan, scatenando la reazione piccata delle autorità pechinesi fino a essere costretto a smentire (2). In un’intervista a dir poco irrituale all’«Atlantic» (3), il Governatore della Banca centrale cinese lasciò intendere che gli americani avrebbero dovuto iniziare a fare i conti con il loro deficit in esplosione e soprattutto con i loro maggiori investitori esteri, primo fra tutti la Cina: siate gentili con chi vi presta i soldi, disse laconico.

Al di là dei tanti incontri tra Barack Obama e Hu Jintao in quest’anno di crisi – tre volte, un record – nulla di concreto è stato fatto per rendere meno fragile un rapporto complicato. A giudicare dall’atteggiamento del Presidente americano alla sua prima visita in Cina, la lezione non è stata ancora recepita. La politica della reverenza con i non alleati non sta funzionando granché bene. Obama è partito da Washington con l’obiettivo di ottenere dalla Cina un cambiamento della sua politica sullo yuan, una collaborazione sui dossier internazionali come Iran, Afghanistan e Corea del Nord, e un accordo sulla questione ambientale e su quella del commercio.
 
Nessun obiettivo è stato centrato (4). Il Presidente non ha fatto in tempo a rientrare a Washington che il Governatore della Banca centrale cinese dichiarava: «Per noi è come assistere a un torneo. Ma al di là di chi vince e chi perde, il problema di capire se il risultato della partita possa portare o no dei benefici allo spettatore nemmeno si pone». Questo vuol dire – decriptato – che la Cina manterrà un atteggiamento passivo rispetto al rapporto tra dollaro e yuan: non farà quelle rivalutazioni che da anni le autorità americane chiedono con insistenza. È difficile riequilibrare il rapporto se la moneta cinese è troppo svalutata, il debito americano è in parte in mani cinesi e il dollaro vale sempre meno. Questi sono gli elementi di una crisi, non di una stabilizzazione.
 
In più c’è la questione del commercio: l’Amministrazione Obama scivola verso il protezionismo perché il «buy American» è una tentazione per contenere la disoccupazione. E se non contiene la disoccupazione, le elezioni a medio termine del 2010 sono a rischio: il team della Casa Bianca non teme l’inflazione ma piuttosto lavora per creare posti di lavoro, come mostrano la politica del dollaro basso (non contrastata se non a parole) e il protezionismo. La Cina ha reagito alle tariffe statunitensi sui pneumatici alzando quelle sulle carni di pollo statunitense e poi la ritorsione è sembrata morta lì. È evidente però che la mancanza di impegno da parte americana nel combattere il protezionismo induce anche gli altri paesi a comportarsi sulla base dei propri interessi nazionali, con buona pace degli infiniti sforzi di liberalizzazione commerciale rubricati sotto il cappello dei Doha Round.
 
E quando le autorità di Pechino cominciano a ripetere sempre più spesso la parola duojihua, multipolarismo, è chiaro che la prospettiva cinese è cambiata: la superpotenza americana è in declino, il G2 è soltanto una pace armata.


(1) http://www.businessweek.com/globalbiz/blog/eyeonasia/archives/2009/11/us_ambassador_o.html

(2) http://www.bloomberg.com/apps/news?pid=20601089&sid=a8LmQm3ouhJs

(3) http://www.theatlantic.com/doc/200812/fallows-chinese-banker

(4) http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2009/11/18/AR2009111801076.html?hpid=topnews