Fonte: Business Week

È diventato un luogo comune asserire che le imprese investono nei paesi a basso costo del lavoro. In questo modo, prosegue l’adagio, per lo stesso prezzo i costi sono inferiori e quindi i profitti maggiori.

Oppure, i prezzi possono essere schiacciati e le imprese diventare più competitive. Ci si preoccupa e si chiedono qualche volta i dazi.

Sembra una ovvietà, ma non è scontato. O, meglio, può essere vero solo per alcuni settori, non per tutti. In un libro di storia economica (Farewell to Alms, di Gregory Clark*) ci si chiede perché, se nell’Ottocento i salari indiani non erano che una frazione minuscola di quelli inglesi, le merci indiane, i prodotti tessili nella fattispecie, non sono mai diventati competitivi con quelli inglesi. Gli indiani lavoravano meno e si assentavano di più dal lavoro. Alla fine il guadagno sul solo costo del lavoro era assorbito dalla minore produttività. Sembrano storie di una volta, pregiudizi imperiali degni solo di Kipling, eppure oggigiorno le imprese automobilistiche giapponesi stanno tornando a produrre in Giappone proprio perché l’addestramento e la disciplina degli operai nipponici più che compensa il loro maggior costo**.
 
Lentamente si riscopre che la crescita economica ha a che fare con lo studio, con la disciplina, con la tecnologia, con le qualità delle istituzioni. Ossia col contrario dei salari da fame. In effetti, se così non fosse i paesi con salari da fame sarebbero da tempo diventati ricchi: se non per merito degli imprenditori locali, grazie alle imprese estere che avrebbero trasferito gli impianti. Perché Haiti non è ricca come il Giappone? Non c’è paese – esclusi quelli che pompano petrolio, ma avendo pochi abitanti – che sia ricco in assenza di studio, disciplina, tecnologia e buone istituzioni. I cinesi che studiano l’inglese come seconda lingua sono ormai numerosi quanto gli abitanti dei paesi di lingua inglese***. Perché i cinesi studiano altre lingue allo scopo di arricchirsi? Dovrebbero, secondo il luogo comune, abbassarsi i salari, eppure fanno il contrario. I cinesi hanno capito che diventano competitivi se studiano l’inglese, non se sono mal pagati, né se lavorano giorno e notte e senza mai guardare le nuvole.