Si diceva dei gioielli di famiglia. Ebbene eccoli. Secondo la Banca mondiale, le risorse naturali estratte su territorio russo costituiscono il 18,7% del Pil (anno 2012). E per risorse naturali si intendono non soltanto petrolio e gas, ma tutto ciò che comporta un’attività estrattiva.

Gli idrocarburi nello specifico costituiscono il 13,9% (petrolio) e il 2,3% (gas)1. Si tratta di quasi un quinto della produttività nazionale, cui vanno aggiunti l’indotto e i derivati (industriali e finanziari). Gli osservatori Usa (Eia, Energy information administration), aggiungono che petrolio e gas, insieme, rappresentano il 52% delle entrate federali e superano il 70% dell’export russo. Mosca conserva così il terzo posto di produttore petrolifero al mondo, dopo Arabia Saudita e Stati Uniti, e il secondo sul fronte del gas. Preceduta ancora una volta dagli Usa. A ben guardare anche questo è un motivo della competizione costante Mosca-Washington.

 

Presi così anche i numeri supporterebbero la tesi per cui la Russia è un petrostato a tutti gli effetti e come tale incide – o vorrebbe farlo – sulla politica e sull’economia globali. Attenzione: il discorso è limitato al petrolio. Per quanto riguarda il gas, nonostante l’allarmismo dei media occidentali, Gazprom & Co. sono molto più vincolati al mercato di quanto si voglia credere.

Le risorse naturali sono sì una manna dal cielo, ma anche un problema. Perché il produttore/venditore non è libero di non vendere (se non vende, non incassa). E poi perché il prezzo non lo impone lui, ma deve adeguarsi alle offerte internazionali.

Per giunta questo prezzo deve armonizzarsi con lo stato sociale interno. Nel senso che gli utili petroliferi finanziano ciò che un governo non può sostenere con il prelievo fiscale. Già nel 2011, è stato calcolato che con il Brent sotto i 105 dollari al barile, Mosca non sarebbe riuscita a pagare le pensioni2. Mentre si sa che è sul Welfare efficiente che si radica il consenso. E infine ci si ricordi che l’euforia suscitata dalla scoperta dei giacimenti nel sottosuolo porta generalmente un fisiologico disinteresse a sviluppare altri settori produttivi; lo chiamano “Dutch disease”3.

Male olandese a parte, chi vive di petrolio può sfruttare spazi di manovra maggiori rispetto a chi ha fatto del gas la sua unica fonte di esistenza. Il greggio è più economico da estrarre, raffinare e trasportare. Ed è vincolato a una tecnologia più elastica: un gasdotto una volta installato non si può spostarlo, il petrolio invece viaggia sempre più via nave e lo si manda ovunque.

In questo, le ultime mosse della Russia vengono a supporto. Sulla scia della chiusura dei rubinetti di gas a occidente, a Mosca c’è già chi si lamenta. Vedi la Rosneft, già citata precedentemente. A est, invece, la stessa compagnia firma l’intesa con Pechino per la più grande fornitura di gas al mondo (400 miliardi di dollari in trent’anni). E qui bisogna chiedersi quanto potranno pompare i giacimenti di Sachalin, sui quali Mosca sta scommettendo tanto. Oggi l’estremo oriente russo compensa la scoperta del fianco a ovest. Potrà riuscirci anche domani? Sia economicamente, sia come area di stabilità geopolitica, Cina e Giappone non sono i partner più affidabili per Mosca. Insomma, è evidente che la Russia, al netto di Sachalin, o vende in Europa oppure non vende!

Ora, di tutto questo i leader sovietici, un tempo, erano ben consapevoli. Durante i suoi settant’anni di storia, l’Urss è rimasta sempre il secondo produttore di greggio al mondo. Questo le permise i piani quinquennali con Stalin, la ricostruzione industriale dopo la seconda guerra mondiale e la costante, enorme spesa in armamenti durante la guerra fredda. Il meccanismo, si sa, si inceppò con l’intervento in Afghanistan, nel mentre che il prezzo del petrolio, all’inizio degli anno Ottanta, precipitava del 70%.

Quindi: spese militari senza controllo, dipendenza produttiva da pochi clienti e da un prezzo deciso da terzi, regime politico stabile unicamente perché c’è un leader forte. Più o meno era questa l’Urss, più o meno è così la Russia di Putin. Solo che dell’Unione sovietica nessuno si è mai azzardato a dire che fosse un petrostato; la sua potenza era riposta altrove. Oggi di Mosca si sostiene il contrario.

Ma la Russia non è un petrostato perché non può permettersi di esserlo. Non può fare come gli emiri del Golfo, che osservano dalla finestra quel che succede nel mondo, ben attenti a evitare che l’onda lunga di qualunque crisi non bagni i loro pozzi.

La Russia non è un petrostato perché Mosca non può – né per tradizione né per fisionomia geopolitica – “restare a guardare”. Il capo del Cremlino non è un emiro, i cui sudditi vivono di rendita. Anzi, la povertà latente – e adesso il pericolo fame, vista la chiusura delle frontiere ai prodotti alimentari occidentali – offre uno spiraglio alla dissidenza, all’opposizione e quindi alla lenta, lentissima fermentazione della democrazia. Per quanto lunga e dura possa essere la strada, un’autocrazia che non funziona si avvicina automaticamente alla democrazia.

La Russia non è un petrostato. Ma finge di esserlo. Almeno questo è il verbo di Putin. Di fronte all’occidente, perché non ha altri muscoli da mostrare. Di fronte alle tigri asiatiche, perché non sarebbe credibile in qualsiasi altra veste. In Cina sanno infatti che Putin non è l’erede dell’Urss. E il fallimento militare in Ucraina lo sta dimostrando. E tanto meno è un colosso industriale. Il made in China rappresenta il 16% delle importazioni russe. Se anche questo flusso dovesse essere ridimensionato – per una qualsiasi ragione – Putin sarebbe alla canna del gas. E la metafora non è casuale. Quindi? Quindi si può soltanto scommettere tutto su gas e petrolio. Sperando che lo shale gas sia un bluff. (Continua -3)

1 http://wdi.worldbank.org/table/3.15 I dati sono in riferimento all’anno in corso (2014).

2 All’inizio di quest’anno il “fiscal break-even price” era salito a 117 dollari, nel mentre che si simulava una plausibile discesa del Brent a 60 dollari al barile. Per approfondimenti, leggi qui.

3 Per un ulteriore approfondimento si rimanda a M.L. Ross, “The oil curse”, Princeton University Press, 2012.