Domani si tiene un incontro che dovrebbe fare il punto sulla situazione macroeconomica e finanziaria in Europa con particolare riguardo per l'Italia. Si seguito la traccia dell'intervento. Ci sarà anche una seconda parte sulla Cina che segue la traccia di questa nota.

Proviamo a immaginare che cosa accadrebbe se la politica monetaria ultra lasca terminasse, cosa che prima o poi – anche se il poi può essere un paio di anni - senza che una qualche ripresa robusta si sia palesata. I rendimenti dei BTP decennali oggigiorno sono intorno al 4,5%, un livello non distante da quello che si aveva prima che scoppiasse la crisi dei debiti dei Paesi del Sud Europa nel 2011. E un livello non distante nemmeno da quello che si aveva prima che scoppiasse la crisi nel 2007.

Sono i rendimenti degli altri Paesi ad essere scesi ben sotto le medie storiche – quello statunitense, quello tedesco, e degli altri Paesi – come la Gran Bretagna e la Francia, detti “ben messi”. E dunque sono i rendimenti di questi ultimi che debbono - se la politica monetaria smette di essere ultra espansiva - correggere, salendo. (Se i rendimenti salgono, i prezzi scendono, perché la cedola è fissa). Sembra perciò che non vi sia ragione perché i rendimenti dei BTP in futuro debbano salire. Salendo il rendimento del Bund tedesco dal quasi 2%, dove si trova adesso, verso il 3,5% che è il suo rendimento normale - si avrebbe – con un rendimento del BTP invariato - anche una compressione dello spread, che tornerebbe perciò sui 100 punti base.

Questo ragionamento è troppo semplice. Nella sostanza esso afferma che, mentre il nostro rendimento è “normale”, quello degli altri è “anomalo” e dunque, i “normali” non possono che restare “normali”, mentre gli “anomali” non possono che tornare alla “normalità”. E' una semplice regressione verso la media. Ci sono, infatti, delle pietre sparse lungo il percorso che possono far inciampare.

Un chiarimento: esiste il rischio tasso – se i rendimenti salgono i prezzi delle obbligazioni scendono, ed il rischio emittente – alla scadenza l'obbligazione può non essere rimborsata in parte o in tutto. Né il Bond statunitense, né il Bund tedesco corrono il rischio emittente, ma solo il rischio tasso. Per il BTP il discorso è diverso: se sale il costo del debito pubblico, in assenza di crescita e dato il peso del debito medesimo, qualcuno penserà che possa far capolino l'idea di ristrutturarlo. E dunque vorrà un “premio per il rischio”, che si manifesterà in un rendimento maggiore di quello storico dell'epoca dell'euro area, che è fra il 4 e il 5%. Il maggior premio per il rischio alza il costo del debito e perciò giustifica a posteriori il rialzo del rendimento. Ossia, rischia di diventare una “profezia che si auto-invera”.

Il combinato italiano di un gran debito con una crescita inesistente è sempre pronto ad alimentare il dubbio che in Italia ci possa essere, oltre al rischio tasso, che è comune a tutti i paesi, anche un rischio emittente, seppur molto contenuto. E dunque il rialzo dei rendimenti nei Paesi detti “ben messi” potrebbe spingere al rialzo anche i nostri. Esiste perciò la possibilità che i rendimenti dei BTP possano – nonostante siano intorno al livello antecedente la crisi - salire quando la politica monetaria ultra espansiva della Banca Centrale Europea termini. Che cosa si può fare perché questo non avvenga? Rilanciare lo sviluppo è la risposta ovvia.

Ma allora perché non lo di fa. Provo a dare una risposta. Fa parte del senso comune l'affermare che lo sviluppo economico sia tanto maggiore quanto minori sono i vincoli sia nel mercato dei prodotti sia in quello del lavoro. Se non vi sono vincoli, allora le innovazioni si diffondono più facilmente, perché si hanno meno ostacoli nella diffusione dei prodotti, che, a loro volta, possono materializzarsi solo se la forza lavoro si sposta - senza troppe frizioni - dai vecchi ai nuovi settori.

Per una definizione della regolamentazione dei mercati dei prodotti e della tutela dell'occupazione si veda il grafico III.7. Bene, misuriamo questa affermazione – il primo blocco di grafici è il III.5. Il grafico a sinistra mostra sull'asse orizzontale il grado di regolamentazione dei prodotti – man mano che ci si sposta a destra la regolamentazione diventa più stringente - e su quello verticale la produttività del lavoro dei diversi Paesi. Il grafico al centro - mostra sempre sull'asse orizzontale il grado di regolamentazione dei prodotti e su quello verticale il tasso di occupazione dei diversi Paesi. Ne deriva una retta di regressione che si muove dall'alto a sinistra verso il basso a destra, ossia si evince che tanto più il mercato dei prodotti è regolamentato tanto minore è la produttività e l'occupazione. Il terzo grafico collega la regolamentazione del mercato del lavoro al tasso di occupazione. Anche qui si evince che il tasso di occupazione è tanto maggiore tanto minore è la regolamentazione del mercato del lavoro. Abbiano visto che le affermazioni di di senso comune sono molto vicine alla realtà, almeno nel breve termine. Allora perché il senso comune non è attuato, perché non è reso reale? Osserviamo il secondo blocco di grafici, il III.8. I Paesi che hanno subito meno la pressione dei mercati finanziari – il grafico a sinistra - sono quelli che hanno reagito meno alle raccomandazioni di riforma (queste ultime sono approssimate dai suggerimenti “Going for Growth” dell'Ocse). L'asse orizzontale misura il rendimento puntuale dei titoli di stato prima e dopo la crisi. Se questo è sceso – e dunque si è a sinistra rispetto all'asse dello zero – allora le raccomandazioni non sono state seguite e viceversa. Il grafico a destra mostra come le raccomandazioni siano seguite quanto maggiore è la recessione.

Insomma, le riforme che aiutano lo sviluppo si fanno solo se le cose vanno davvero male - il costo del debito pubblico che aumenta e la crisi che morde -, altrimenti si preferisce lasciare il mondo tale e quale, sperando che col tempo tutto si aggiusti. Il che ci porta alla domanda: è la crisi che spinge le riforme? Se la risposta è sì, allora il momento migliore per fare le riforme in Italia lo abbiamo avuto alla fine del 2011 inizi del 2012, quando la pressione dei mercati era massima. Allora alcune riforme furono fatte – quella delle pensioni e, parzialmente, quella del mercato del lavoro, ma altre eluse – come la liberalizzazione del mercato dei prodotti.

Per evitare che in futuro – terminata la politica monetaria ultra espansiva - il rendimento del BTP salga, si deve rilanciare lo sviluppo, il che avviene non con una maggiore spesa pubblica, ma con le liberalizzazioni. Per evitare che le riforme si facciano nel bel mezzo di una crisi – il rischio sarebbe che mentre si varano le riforme il costo del debito aumenti – occorre farlo anticipatamente. Ossia a partire dall'oggi. Il declassamento del nostro debito da parte dell'agenzia di rating Standard & Poor's di pochi giorni fa ha alla spalle un'analisi simile a quella fin qui mostrata. La lentezza del varo delle riforme che spingono verso lo sviluppo è alla base del giudizio che la tendenza sia quella di un peggioramento delle cose e quindi del rating.