“La clamorosa svista storica di Reinhart e Rogoff fa cadere in effetti uno dei dogmi sui quali si è retta per decenni la religione laica del rigore, e cioè il fatto che quando il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo supera il 90% la crescita si blocca e si entra nel girone infernale della recessione. Non è vero niente”.
Così un Massimo Giannini su Affari & Finanza del 29 aprile riporta i termini della querelle economica che ha appassionato i commentatori nelle ultime settimane. La sensazione dopo la lettura di questo e di altri commenti è che finalmente gli avversari dell’austerity sentono di aver trovato il modo di avere ragione, pur sorvolando su diversi aspetti che qui vorrei ripercorrere.
In nessuna parte dell’articolo di Reinhard e Rogoff si suggeriscono di misure di politica economica restrittive nella situazione economica che stiamo vivendo. L’articolo considera oltre 200 anni e 44 paesi e mostra una riduzione del tasso di crescita quando il rapporto debito pubblico/Pil supera il 90%. Questo risultato è comunque confermato (anche se in maniera meno forte) anche quando si considerano le correzioni – tra cui la famigerata questione delle celle di Excel - fatte da Herndon, Ash e Pollin (1). L’articolo è stato pubblicato su American Economic Review: Papers & Proceedings, volume 100, pagine 573–578 (2). Si tratta di un lavoro breve, presentato in un panel della ASSA Conference e che, secondo le regole della rivista - tra le più prestigiose tra quelle economiche -, non viene sottoposto a revisione anonima da parte di revisori non conosciuti dall’autore dell’articolo, come invece avviene per gli articoli pubblicati nei numeri normali della rivista.
Si tratta di una procedura standard, descritta sul sito dell’ American Economic Review, e tutti gli articoli pubblicati in quel numero (e nei numeri simili prima e dopo di quello, a meno di futuri cambiamenti delle regole) hanno ricevuto lo stesso trattamento. Ritenere che un articolo di questo tipo possa avere una tale rilevanza da far cambiare le politiche economiche a diversi paesi del mondo, ed in particolare a quelli dell’euro zona, sembra eccedere nella fiducia nel ruolo della ricerca scientifica sulle scelte dei politici.
Quando in Italia nel 2011 abbiamo implementato dure misure fiscali lo abbiamo fatto non perché la scienza economica o gli ostili tedeschi ce lo chiedevano, ma perché i nostri creditori internazionali non avevano più fiducia nella nostra capacità di rimborsare i prestiti che avevamo contratto. Tra l’altro tutta la storia fiscale dell’Italia dall’unificazione ai giorni nostri è segnata da episodi di risanamento fiscale realizzati quando il rapporto debito pubblico/PIL era particolarmente elevato: negli anni ’90 del XIX secolo con l’aumento delle tasse, nel 1906 con aumento delle tasse, riduzione della spesa ed una ristrutturazione del debito pubblico, negli anni ’30 con il prestito forzoso realizzato dal regime fascista, nel 1946-48 con l’inflazione, nel 1992-93 di nuovo aumentando considerevolmente le entrate fiscali, ed infine negli ultimi anni.
Infine, e questa è una considerazione più rivolta al ristretto gruppo degli economisti, è importante che i dati siano pubblici e che sia possibile replicare gli studi realizzati da altri. Questo principio è proprio delle scienze sperimentali e dovrebbe essere sempre più seguito e valorizzato anche nella scienza economica.
(1) http://www.peri.umass.edu/236/hash/31e2ff374b6377b2ddec04deaa6388b1/publication/566/
(2) http://scholar.harvard.edu/files/rogoff/files/growth_in_time_debt_aer.pdf
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