Natale è il momento in cui grandi e piccini si scambiano i doni. I bambini scrivono lettere a Babbo Natale per comunicargli i loro desideri e attendono con ansia di trovare ciò che hanno chiesto sotto l’albero. E fin qui, vi chiederete, qual è la novità? La novità è che Joel Waldfogel, docente di Yale, nel 1993 ha dimostrato empiricamente che questo è il metodo più efficiente per fare doni. In altre parole credere a Babbo Natale non è soltanto un modo per rendere più poetico e magico il Natale, ma è anche il più efficiente da un punto di vista economico.


Il problema che nasce dalla, talvolta annosa, questione dei regali è che chi fa la scelta di consumo, cioè il donatore, non è il consumatore finale, e questo può generare una mancata rispondenza tra la scelta del dono e le preferenze di chi lo riceve. L’insoddisfazione legata ad un regalo non apprezzato viene misurata dal numero di regali “riciclati”. La conseguenza è quella che in economia viene chiamata “perdita netta”, perché il ricevente trae meno soddisfazione da quel dono di quanta ne trarrebbe, se con lo stesso ammontare di denaro facesse da sé la sua scelta di consumo. Il risultato è che fare regali distrugge tra un decimo e un terzo del valore del regalo. Se si pensa che negli Stati Uniti nel 1992 sono stati spesi per i doni natalizi, come stimato dal docente di Yale, 38 miliardi di dollari, ne deriva che la perdita netta derivante dallo scambio dei regali è compresa tra i 4 e il 13 miliardi.
 
I regali fatti dagli amici e dai propri compagni di vita sono quelli che meglio soddisfano il requisito dell’efficienza economica, mentre quelli che generano una più alta perdita netta sono quelli fatti da zii, nonni, genitori, etc. In altre parole esiste una correlazione positiva significativa tra la distanza sociale che intercorre tra chi fa e chi riceve il dono e la perdita netta, che può arrivare fino ad un terzo del valore del dono. Lo stesso pare valere per la differenza di età del donatore e del ricevente: al suo aumentare si assiste ad un aumento della perdita netta.
 
Waldfogel costruisce un modello di utilità attesa e trova che i regali monetari sono più comuni tra i donatori i cui possibili doni non monetari hanno il valore atteso più basso per il ricevente. L’evidenza empirica conferma quanto suggerito dal modello. In altri termini la consapevolezza di donare qualcosa che possa non essere apprezzato può spingere il donatore a scegliere di regalare denaro.  Coerentemente con i risultati già descritti, l’autore trova che a scegliere di regalare denaro sono in primis i nonni e poi gli zii, cioè coloro i cui possibili regali non monetari hanno una probabilità più alta di essere in seguito riciclati, perché non rispondenti ai gusti di chi li riceve. Non bisogna però tralasciare il fatto che fare un particolare regalo può generare un aumento di utilità in chi il regalo lo fa. In altre parole, la perdita netta del ricevente può essere controbilanciata da un aumento di soddisfazione (e di utilità, nel senso economico del termine) di chi fa il regalo.

Sembrerebbe quindi che, in nome dell’efficienza economica, si debba scegliere se abolire il Natale (perlomeno il suo lato commerciale) o continuare a credere per tutta la vita in Babbo Natale, al fine di ridurre al minimo la probabilità di ricevere un dono che non soddisfa i nostri gusti.
 
Esiste, però, anche una “terza via”: regalare denaro. Il problema è che esiste uno stigma sociale nel regalare soldi ed è il motivo per cui questo tipo di regalo non è così diffuso. Il dono, però, non può essere visto soltanto da una prospettiva economica. Basta allontanarsi per un attimo dal mondo occidentale e pensare a quanti saggi sono stati scritti dagli antropologi sull’importanza del dono in culture dove il paradigma dell’homo oeconomicus non sembra valere per intuire quanti e quali altri significati si possono attribuire allo scambiarsi i doni. Forse anche la sola idea che qualcuno abbia pensato a noi facendoci un regalo è un motivo più che sufficiente, anche se non efficiente, per perpetuare la tradizione.