Riceviamo e volentieri pubblichiamo. Prima il testo che abbiamo ricevuto, poi il nostro commento, cui segue il controcommento di un altro lettore, quindi il commento della prima persona che è intervenuta. Tempo d’esami. Fin da ora siamo in grado di indovinare in quale materia gli italiani – soprattutto i più giovani – saranno irrimediabilmente bocciati: l’educazione economica e finanziaria. Un bel guaio, soprattutto con i tempi che corrono.
Tre settimane fa era sorta un’iniziativa coordinata tra le varie Authority e la Banca d’Italia per cercare di porre rimedio all’ignoranza dei concittadini. È un buon inizio, così come lo sono le altre iniziative già esistenti programmate dal settore privato. Purtroppo tutto ciò non è sufficiente. Occorrerebbe, infatti, uno sforzo supplementare d’educazione scolastica che a tutt’oggi manca.
Il legislatore finora è parso distratto sull’argomento, anche se, a fronte del deposito dei cinque disegni di legge che provengono sia dalla maggioranza sia dall’opposizione, la X Commissione Industria del Senato ha promosso una serie d’audizioni per tentare di predisporre un testo unificato da trasformare in legge. Le audizioni hanno confermato quanto si sapeva, ossia l’endemica ignoranza in campo finanziario della nostra popolazione.
Nell’audizione dello scorso mese di novembre davanti alla succitata Commissione del Senato, il direttore generale dell’Associazione Bancaria, Giovanni Sabatini, citando la ricerca «PattiChiari Ambrosetti», ha ricordato che l’Italia è all’ultimo posto tra i quattro maggiori paesi dell’Unione Europea nell’indice di cultura finanziaria. Purtroppo, a fronte di lacune gravi, come ha evidenziato il vicedirettore generale della Banca d'Italia, Ignazio Visco, ovvero che «una famiglia su due non ha le cognizioni di base per prendere decisioni consapevoli sulle più comuni transazioni finanziarie», la Consob fa sapere che nell’ultimo anno il valore degli strumenti detti strutturati (delle combinazioni d’attività finanziarie in prodotti spesso poco liquidi) detenuti dai risparmiatori italiani è davvero cospicuo.
I quali risparmiatori, quando si scottano, tornano ai titoli del Tesoro, anche quando i loro rendimenti sono ritenuti «insoddisfacenti». Nota finale: il «popolo dei risparmiatori» sembra avere un sacro timore nei confronti della Borsa, che pesa poco nei portafogli. Questo fattore, alla lunga, danneggia le opportunità di crescita del paese. Ma torniamo alle proposte di disegno di legge.
In sostanza, sembrano esserci due opzioni per tentare di colmare le lacune nell’educazione finanziaria degli italiani. La prima prevede la costituzione di un comitato tecnico promosso da tre ministeri (economia, sviluppo economico e istruzione) e composto da un rappresentante delle associazioni dei consumatori, da uno del mondo accademico, da un esperto di finanza accreditato presso l’Unione Europea. Il Comitato avrà il compito di promuovere e certificare i progetti di formazione che potranno essere proposti da organismi sia pubblici che privati. Il finanziamento delle attività formative è affrontato o in via privatistica tramite autofinanziamento diretto da parte dei soggetti proponenti o tramite la ricerca di sponsor o prevedendo una sorta di «prelievo forzoso» sulle società di credito al consumo pari al 5% del fatturato pubblicitario dell’anno precedente.
La seconda via prevede il coinvolgimento del ministero dell’istruzione università e ricerca, che dovrebbe inserire l’insegnamento dell’educazione finanziaria nei programmi della scuola primaria e secondaria, così come auspica anche la risoluzione del Parlamento europeo del 2008.
Alla prima ipotesi si potrebbe obiettare che sembra essere un clone di quanto già fa il Consorzio PattiChiari, che raccoglie al suo interno sia dei primari istituti bancari sia la stessa Banca d’Italia. Quanto alla seconda strada, siamo lontani dall’intravedere l’inizio del cammino, dal momento che la riforma della scuola secondaria di secondo grado non prevede alcun tipo di insegnamento equiparabile e, per di più, da un sondaggio pubblicato sul portale Tuttoscuola emerge che la maggioranza degli insegnanti non si sente preparata ad affrontare l’argomento.
L’ottica con la quale si guarda alla cultura economico-finanziaria alla fine sembra essere quella di proteggere il consumatore da una possibile truffa, piuttosto che quella di creare dei cittadini che siano investitori consapevoli.
La nostra risposta
Sono due le obiezioni che vengono subito in mente. La prima. Nessuno si sogna di organizzare corsi certificati per imparare a decidere da quale dentista andare. I dentisti ci sono, e la loro offerta alla fine segue delle regole. Perché mai dovrebbe essere diverso in finanza, laddove i dentisti organizzati dovrebbero essere le reti di distribuzione di servizi finanziari? Sono queste ultime che vanno qualificate, ossia, spinte a stare dalla parte del fruitore dei servizi e non del produttore. La coscienza dei cittadini che sa giudicare le cose finanziarie è un oggetto oscuro.
La seconda. Sospettiamo che l’insegnamento dell’economia e della finanza nelle medie inferiori e superiori facilmente cadrebbe nel racconto della tratta degli schiavi, dei galeoni assaltati dai corsari e così via – questo per i secoli lontani. Per quelli più vicini, si racconterebbe di quanto la finanza sia avida, e, tocco finale, di come il capitalismo distrugga la Natura. Chiunque abbia letto un libro delle scuole medie ha trovato queste amenità. Bisogna ogni tanto ricordarsi che gli intellettuali spesso non amano il capitalismo, perché non vedono in questo sistema quel ruolo di guida ben retribuita che pensano di dover avere. Trattandosi di un sistema che tutto desacralizza, i ruoli sacerdotali sono premiati poco. Con un sistema di economia pianificata, invece, essi potrebbero dedicarsi totalmente al Bene. (Le cattiverie appena esposte sono state ispirate da Schumpeter e Nietzsche).
E dunque, quale educazione ne verrebbe fuori? Una scommessa: i nostri pronipoti con questa cultura investirebbero lieti solo nelle attività ecosolidali. Meglio allora avere delle reti di distribuzione con gli interessi allineati a quelli dei risparmiatori.
La controrisposta
A una prima occhiata l’idea, come ogni proposta di trasformare un comportamento umano in materia scolastica, appare abbastanza respingente. Ma l’argomentazione addotta come critica è ancora più lontana da un’idea liberale.
Così come non è richiesto al paziente di fidarsi ciecamente del dentista, anche se forse ai dentisti piacerebbe, altrettanto un risparmiatore non deve affidarsi totalmente e senza discutere agli specialisti nel settore finanziario. Proseguendo il paragone, in tutti i settori della sanità da anni sono in corso iniziative divulgative che promuovono certi tipi di comportamenti, pratiche e informazioni al riguardo.
Già all’asilo ci viene insegnato a lavarci i denti (se non ci hanno pensato i genitori prima) e per tutta la vita siamo accompagnati (complici ovviamente anche le avide multinazionali del dentifricio) da consigli, notizie di scoperte in materia e spot del filo interdentale, con il risultato che negli ultimi decenni la salute dentaria della popolazione in media è migliorata, con risultati estetici apprezzabili, ma anche probabilmente con un notevole risparmio sia dei singoli (che hanno scoperto comportamenti razionali di prevenzione preferibili a una visita dal dentista per una bella protesi) che delle casse della mutua (possiamo ipotizzare una riduzione di malattie legate alla cavità orale). Probabilmente anche i dentisti saranno più contenti di dialogare con pazienti più disciplinati e consapevoli, anche se forse qualcuno preferirebbe avere clienti trascurati con 32 corone da rifare. Possiamo però presupporre che essi siano un’esigua minoranza, altrimenti dovremmo adottare verso i dottori il punto di vista già diffuso nei confronti degli operatori finanziari, secondo il quale sono tutti pronti a «spennare» il cliente.
La consapevolezza dei comportamenti in campi diversi negli ultimi decenni è stata promossa sia dallo Stato, sia dagli attori dell’economia, sia da associazioni non governative e professionali. Abbiamo guide che ci suggeriscono dove mangiare, associazioni di consumatori che ci assistono negli acquisti ragionevoli, organizzazioni professionali che si auto-organizzano per vigilare su certi standard in vari settori, comuni che cercano di convincerci (oltre che costringerci) ad assumere comportamenti razionali come la raccolta differenziata, scienziati che ci terrorizzano con i pericoli del fumo passivo, reti civiche che c’invitano a guardarci dalla corruzione e dagli abusi, enti pubblici e privati che monitorano l’ambiente eccetera. Non è chiaro perché invece nel campo dell’economia si debba venire lasciati a una «mano invisibile».
Che l’economia non sia una scienza e in quanto tale non sia insegnabile ovviamente non può essere considerata un’obiezione. Resta il problema di come/quanto/cosa insegnare, e appare ovvio che la materia non possa essere «applicata» al punto da permettere a uno studente che ha ascoltato X ore di un corso di scegliere e investire correttamente (se non lo sanno fare i geni matematici al soldo delle grandi case...).
Si tratta, però, di fornire un algoritmo, una bussola per comportamenti pratici e diffusi (ai detrattori dell’idea verrà senz’altro in mente il tanto e forse ingiustamente deriso berlusconiano «Inglese, informatica, impresa»), e soprattutto di sfatare certi miti, la manifestazione dei quali in Italia può venire osservata tutti i giorni: la coda al casello autostradale dove si paga in contanti rispetto alle corsie vuote riservate al Telepass, la scarsa diffusione delle carte di credito, la confusione totale di fronte alle condizioni di un mutuo. Ciascuno di noi ha sentito frasi come «le banche ci rubano i soldi», «non mi fido a usare la carta di credito», «meglio comprare casa che investire», «meglio non farsi prestare i soldi dalle banche» eccetera.
Senza esagerare la cultura economica degli americani – comunque nei suoi basics più alta di quella degli italiani – bisogna riconoscere che la maggiore dimestichezza con il mortgage e il credito nelle sue varie forme stimola un’economia più dinamica e «imprenditoriale» rispetto ai ragionamenti da fruitori di rendita ottocenteschi di cui sopra.
La mancanza di cultura e conoscenza alimenta sempre la paura e la diffidenza. Se pensiamo che gli operatori economici e della finanza preferiscono avere a che fare con una base clientelare che mediamente condivide le fobie di cui sopra (è un po' come pensare che i dentisti vorrebbero in segreto averci tutti con i denti marci) e che si sottopone ciecamente alle loro decisioni in materia di investimenti dei propri risparmi, allora alla fine condividiamo l’idea popolare-populista che si tratta di sacerdoti cattivi che celebrano messe nere a Wall Street o in Piazza Affari, sacrificando il sangue di bambini innocenti e risparmiatori ignari. Idea che ha sempre un corrispettivo anche in politica: «tutti ladri», «i partiti sono tutti uguali», «i potenti pensano solo a spremerci» eccetera. Con l’inevitabile fiorire dell’antipolitica, del populismo, del qualunquismo. E del leaderismo, quando al posto di uno scambio razionale voto-interessi si sostituisce l’idea magica dell’uomo della provvidenza, così come il cautissimo e conservatore risparmiatore italico (e non solo) si fa poi tentare dai «miracoli» di un Madoff, con l’inevitabile risultato di gridare poi al ladro e implorare lo Stato di proteggerlo, invece che di educarlo.
E viene il sospetto che uno Stato che ritiene di doversi astenere dall’insegnamento dell’economia nelle scuole, voglia incentivare proprio questo tipo di comportamenti inconsapevoli e irrazionali, preferendo avere a che fare con risparmiatori – e quindi elettori – fobici, emotivi e manipolabili, al prezzo anche di dover di tanto in tanto «salvare» il popolo dei risparmiatori dalle grinfie dei lupi mannari del mercato, riportandolo all’ovile.
Il legislatore finora è parso distratto sull’argomento, anche se, a fronte del deposito dei cinque disegni di legge che provengono sia dalla maggioranza sia dall’opposizione, la X Commissione Industria del Senato ha promosso una serie d’audizioni per tentare di predisporre un testo unificato da trasformare in legge. Le audizioni hanno confermato quanto si sapeva, ossia l’endemica ignoranza in campo finanziario della nostra popolazione.
Nell’audizione dello scorso mese di novembre davanti alla succitata Commissione del Senato, il direttore generale dell’Associazione Bancaria, Giovanni Sabatini, citando la ricerca «PattiChiari Ambrosetti», ha ricordato che l’Italia è all’ultimo posto tra i quattro maggiori paesi dell’Unione Europea nell’indice di cultura finanziaria. Purtroppo, a fronte di lacune gravi, come ha evidenziato il vicedirettore generale della Banca d'Italia, Ignazio Visco, ovvero che «una famiglia su due non ha le cognizioni di base per prendere decisioni consapevoli sulle più comuni transazioni finanziarie», la Consob fa sapere che nell’ultimo anno il valore degli strumenti detti strutturati (delle combinazioni d’attività finanziarie in prodotti spesso poco liquidi) detenuti dai risparmiatori italiani è davvero cospicuo.
I quali risparmiatori, quando si scottano, tornano ai titoli del Tesoro, anche quando i loro rendimenti sono ritenuti «insoddisfacenti». Nota finale: il «popolo dei risparmiatori» sembra avere un sacro timore nei confronti della Borsa, che pesa poco nei portafogli. Questo fattore, alla lunga, danneggia le opportunità di crescita del paese. Ma torniamo alle proposte di disegno di legge.
In sostanza, sembrano esserci due opzioni per tentare di colmare le lacune nell’educazione finanziaria degli italiani. La prima prevede la costituzione di un comitato tecnico promosso da tre ministeri (economia, sviluppo economico e istruzione) e composto da un rappresentante delle associazioni dei consumatori, da uno del mondo accademico, da un esperto di finanza accreditato presso l’Unione Europea. Il Comitato avrà il compito di promuovere e certificare i progetti di formazione che potranno essere proposti da organismi sia pubblici che privati. Il finanziamento delle attività formative è affrontato o in via privatistica tramite autofinanziamento diretto da parte dei soggetti proponenti o tramite la ricerca di sponsor o prevedendo una sorta di «prelievo forzoso» sulle società di credito al consumo pari al 5% del fatturato pubblicitario dell’anno precedente.
La seconda via prevede il coinvolgimento del ministero dell’istruzione università e ricerca, che dovrebbe inserire l’insegnamento dell’educazione finanziaria nei programmi della scuola primaria e secondaria, così come auspica anche la risoluzione del Parlamento europeo del 2008.
Alla prima ipotesi si potrebbe obiettare che sembra essere un clone di quanto già fa il Consorzio PattiChiari, che raccoglie al suo interno sia dei primari istituti bancari sia la stessa Banca d’Italia. Quanto alla seconda strada, siamo lontani dall’intravedere l’inizio del cammino, dal momento che la riforma della scuola secondaria di secondo grado non prevede alcun tipo di insegnamento equiparabile e, per di più, da un sondaggio pubblicato sul portale Tuttoscuola emerge che la maggioranza degli insegnanti non si sente preparata ad affrontare l’argomento.
L’ottica con la quale si guarda alla cultura economico-finanziaria alla fine sembra essere quella di proteggere il consumatore da una possibile truffa, piuttosto che quella di creare dei cittadini che siano investitori consapevoli.
La nostra risposta
Sono due le obiezioni che vengono subito in mente. La prima. Nessuno si sogna di organizzare corsi certificati per imparare a decidere da quale dentista andare. I dentisti ci sono, e la loro offerta alla fine segue delle regole. Perché mai dovrebbe essere diverso in finanza, laddove i dentisti organizzati dovrebbero essere le reti di distribuzione di servizi finanziari? Sono queste ultime che vanno qualificate, ossia, spinte a stare dalla parte del fruitore dei servizi e non del produttore. La coscienza dei cittadini che sa giudicare le cose finanziarie è un oggetto oscuro.
La seconda. Sospettiamo che l’insegnamento dell’economia e della finanza nelle medie inferiori e superiori facilmente cadrebbe nel racconto della tratta degli schiavi, dei galeoni assaltati dai corsari e così via – questo per i secoli lontani. Per quelli più vicini, si racconterebbe di quanto la finanza sia avida, e, tocco finale, di come il capitalismo distrugga la Natura. Chiunque abbia letto un libro delle scuole medie ha trovato queste amenità. Bisogna ogni tanto ricordarsi che gli intellettuali spesso non amano il capitalismo, perché non vedono in questo sistema quel ruolo di guida ben retribuita che pensano di dover avere. Trattandosi di un sistema che tutto desacralizza, i ruoli sacerdotali sono premiati poco. Con un sistema di economia pianificata, invece, essi potrebbero dedicarsi totalmente al Bene. (Le cattiverie appena esposte sono state ispirate da Schumpeter e Nietzsche).
E dunque, quale educazione ne verrebbe fuori? Una scommessa: i nostri pronipoti con questa cultura investirebbero lieti solo nelle attività ecosolidali. Meglio allora avere delle reti di distribuzione con gli interessi allineati a quelli dei risparmiatori.
La controrisposta
A una prima occhiata l’idea, come ogni proposta di trasformare un comportamento umano in materia scolastica, appare abbastanza respingente. Ma l’argomentazione addotta come critica è ancora più lontana da un’idea liberale.
Così come non è richiesto al paziente di fidarsi ciecamente del dentista, anche se forse ai dentisti piacerebbe, altrettanto un risparmiatore non deve affidarsi totalmente e senza discutere agli specialisti nel settore finanziario. Proseguendo il paragone, in tutti i settori della sanità da anni sono in corso iniziative divulgative che promuovono certi tipi di comportamenti, pratiche e informazioni al riguardo.
Già all’asilo ci viene insegnato a lavarci i denti (se non ci hanno pensato i genitori prima) e per tutta la vita siamo accompagnati (complici ovviamente anche le avide multinazionali del dentifricio) da consigli, notizie di scoperte in materia e spot del filo interdentale, con il risultato che negli ultimi decenni la salute dentaria della popolazione in media è migliorata, con risultati estetici apprezzabili, ma anche probabilmente con un notevole risparmio sia dei singoli (che hanno scoperto comportamenti razionali di prevenzione preferibili a una visita dal dentista per una bella protesi) che delle casse della mutua (possiamo ipotizzare una riduzione di malattie legate alla cavità orale). Probabilmente anche i dentisti saranno più contenti di dialogare con pazienti più disciplinati e consapevoli, anche se forse qualcuno preferirebbe avere clienti trascurati con 32 corone da rifare. Possiamo però presupporre che essi siano un’esigua minoranza, altrimenti dovremmo adottare verso i dottori il punto di vista già diffuso nei confronti degli operatori finanziari, secondo il quale sono tutti pronti a «spennare» il cliente.
La consapevolezza dei comportamenti in campi diversi negli ultimi decenni è stata promossa sia dallo Stato, sia dagli attori dell’economia, sia da associazioni non governative e professionali. Abbiamo guide che ci suggeriscono dove mangiare, associazioni di consumatori che ci assistono negli acquisti ragionevoli, organizzazioni professionali che si auto-organizzano per vigilare su certi standard in vari settori, comuni che cercano di convincerci (oltre che costringerci) ad assumere comportamenti razionali come la raccolta differenziata, scienziati che ci terrorizzano con i pericoli del fumo passivo, reti civiche che c’invitano a guardarci dalla corruzione e dagli abusi, enti pubblici e privati che monitorano l’ambiente eccetera. Non è chiaro perché invece nel campo dell’economia si debba venire lasciati a una «mano invisibile».
Che l’economia non sia una scienza e in quanto tale non sia insegnabile ovviamente non può essere considerata un’obiezione. Resta il problema di come/quanto/cosa insegnare, e appare ovvio che la materia non possa essere «applicata» al punto da permettere a uno studente che ha ascoltato X ore di un corso di scegliere e investire correttamente (se non lo sanno fare i geni matematici al soldo delle grandi case...).
Si tratta, però, di fornire un algoritmo, una bussola per comportamenti pratici e diffusi (ai detrattori dell’idea verrà senz’altro in mente il tanto e forse ingiustamente deriso berlusconiano «Inglese, informatica, impresa»), e soprattutto di sfatare certi miti, la manifestazione dei quali in Italia può venire osservata tutti i giorni: la coda al casello autostradale dove si paga in contanti rispetto alle corsie vuote riservate al Telepass, la scarsa diffusione delle carte di credito, la confusione totale di fronte alle condizioni di un mutuo. Ciascuno di noi ha sentito frasi come «le banche ci rubano i soldi», «non mi fido a usare la carta di credito», «meglio comprare casa che investire», «meglio non farsi prestare i soldi dalle banche» eccetera.
Senza esagerare la cultura economica degli americani – comunque nei suoi basics più alta di quella degli italiani – bisogna riconoscere che la maggiore dimestichezza con il mortgage e il credito nelle sue varie forme stimola un’economia più dinamica e «imprenditoriale» rispetto ai ragionamenti da fruitori di rendita ottocenteschi di cui sopra.
La mancanza di cultura e conoscenza alimenta sempre la paura e la diffidenza. Se pensiamo che gli operatori economici e della finanza preferiscono avere a che fare con una base clientelare che mediamente condivide le fobie di cui sopra (è un po' come pensare che i dentisti vorrebbero in segreto averci tutti con i denti marci) e che si sottopone ciecamente alle loro decisioni in materia di investimenti dei propri risparmi, allora alla fine condividiamo l’idea popolare-populista che si tratta di sacerdoti cattivi che celebrano messe nere a Wall Street o in Piazza Affari, sacrificando il sangue di bambini innocenti e risparmiatori ignari. Idea che ha sempre un corrispettivo anche in politica: «tutti ladri», «i partiti sono tutti uguali», «i potenti pensano solo a spremerci» eccetera. Con l’inevitabile fiorire dell’antipolitica, del populismo, del qualunquismo. E del leaderismo, quando al posto di uno scambio razionale voto-interessi si sostituisce l’idea magica dell’uomo della provvidenza, così come il cautissimo e conservatore risparmiatore italico (e non solo) si fa poi tentare dai «miracoli» di un Madoff, con l’inevitabile risultato di gridare poi al ladro e implorare lo Stato di proteggerlo, invece che di educarlo.
E viene il sospetto che uno Stato che ritiene di doversi astenere dall’insegnamento dell’economia nelle scuole, voglia incentivare proprio questo tipo di comportamenti inconsapevoli e irrazionali, preferendo avere a che fare con risparmiatori – e quindi elettori – fobici, emotivi e manipolabili, al prezzo anche di dover di tanto in tanto «salvare» il popolo dei risparmiatori dalle grinfie dei lupi mannari del mercato, riportandolo all’ovile.
La replica di chi ha scritto il primo articolo
È facile intuire che la sola idea di affidare allo Stato, attraverso il sistema scolastico così com’è, l’educazione economico-finanziaria dei cittadini, si configuri come una prospettiva allarmante. Tuttavia, così come per guidare un’automobile si chiede al cittadino di prendere la patente, dimostrando in questo modo di essere a conoscenza del significato dei segnali stradali e di essere consapevole delle regole che ordinano la circolazione viaria, così sembrerebbe opportuno che i cittadini siano in possesso delle cognizioni di base per prendere decisioni consapevoli sulle più comuni transazioni finanziarie. Invece così non è, per ammissione degli stessi vertici della Banca Centrale. Se si volesse pensare che in via Nazionale sono inclini al pessimismo, allora si consideri che proprio la fascia di popolazione più giovane (quella in età scolare e immediatamente successiva), che dovrebbe essere più dinamica, risulta invece essere la più ignorante in materia, come si evince da una recente ricerca di PattiChiari Ambrosetti.
C’è poi da considerare anche un aspetto psico-sociale. La paura di fare la figura dell’incompetente di fronte a un estraneo espone il cliente dei servizi finanziari alla possibilità di essere manipolato. E così i cittadini italiani s’improvvisano esperti, mentre spesso si lasciano trasportare felici nella convinzione di aver scelto la soluzione più appropriata. E troppo spesso si ritrovano in portafoglio prodotti finanziari che rendono meno di un Buono del Tesoro, ma che fruttano commissioni interessanti al collocatore. Basta ascoltare un vicino di casa illustrarci con convinzione le sue mosse finanziarie. Inutile dire che qualsivoglia suggerimento critico finisce col cadere nel vuoto, perché il vicino di casa è certo di essere stato consigliato da una persona competente – che poi altri non è che il collocatore. Non c’è da stupirsi se, dopo anni in cui i BoT offrivano rendimenti a due cifre (ai tempi della lira), il piccolo e piccolissimo investitore vada a caccia di prodotti simili senza riuscire a focalizzare il rischio sottostante.
Su questi temi rimandiamo al Rapporto sul risparmio e sui risparmiatori in Italia, che il Centro Einaudi pubblica da un quarto di secolo: http://www.centroeinaudi.it/ricerche/rapporto-sul-risparmio.html
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