Chi scrive ha vissuto la sua prima crisi finanziaria nel 1982, quella legata ai crediti delle banche statunitensi nei confronti del Sud America. Poi quella del 1987, 1997, 1998, 2002, e, infine, questa. Tralasciamo la crisi della lira del 1992 e gli anni delle manovre di correzione dei conti pubblici italiani. Va detto che nello stesso periodo, dal 1982, vi è stata, in mezzo a tutte queste crisi, la più grande ascesa dei mercati azionari di cui si abbia memoria. Insomma le crisi alla fine erano inghiottite dal movimento al rialzo.
 

La domanda è: e questa volta? Se guardiamo ai grafici di lunghissimo periodo, i presupposti per una ripresa, che non sia solo un rimbalzo, non vi sono, i rapporti fra prezzi e utili infatti sono alti ed i rendimenti bassi, i cosiddetti fondamentali. Dunque questa crisi scoppia con i mercati delle azioni e delle obbligazioni cari.
 

Se i fondamentali non aiutano, potrebbero aiutare i cosiddetti fattori tecnici. I mercati mostravano scetticismo verso il piano di Paulson, ma hanno giudicato poi peggio la mancanza di un piano. Aspettiamo, stiamo scrivendo alle 21.00, che rifacciano la votazione e poi vediamo. La flessione, che era intorno al 3,5% è poi passata al 7%. Tempo fa sono state proibite le vendite allo scoperto dei titoli finanziari, quelle fatte con i titoli presi a prestito. Questa misura serviva a contenere le vendite ed a sostenere i prezzi. Ora che i prezzi crollano, si vede che questa misura non serviva. O meglio, che sarebbe servita in condizione di recupero. Ai crolli seguono sempre i rimbalzi che sono guidati da quelli che avevano venduto allo scoperto e che si mettono a comprare ad un prezzo più basso per rendere i titoli. Manca un motore che spinga al rialzo, a parità di fondamentali.
 

La nostra tesi, e non da oggi, è che questa crisi è brutta. Si consoli chi ha i propri denari in euro. L’euro, insieme allo yen, è la moneta più solida per comprare le azioni e le obbligazioni. Non ora, perché prima o poi arriveranno, rovinando ulteriormente la festa, gli hedge fund che devono vendere, e, poi, i crediti al consumo che sono in difficoltà.