E' un quadro con poche luci e molti dubbi, se non ombre, quello tracciato dall'OECD nell'ultimo rapporto sul mercato del lavoro nel mondo.

E' un quadro con poche luci e molti dubbi, se non ombre, quello tracciato dall'OECD nell'ultimo rapporto sul mercato del lavoro nel mondo. Gli effetti diretti di una fase recessiva di una durata senza precedenti sembrano essersi arrestati ma, dal punto di vista occupazionale, è difficile parlare di ripresa. Solo in parte (e in pochi paesi) l'occupazione sta ritornando ai livelli pre-crisi e alle difficoltà di carattere quantitativo se ne affiancano altre di carattere qualitativo che, ormai è chiaro, prescindono dalla congiuntura economica ma appaiono connaturate al sistema economico contemporaneo. Disoccupazione di lunga durata, riduzione del potere d'acquisto, intrappolamento in forme di lavoro non standard, discriminazione anagrafica, job strain sono forme diverse di un processo di polarizzazione economica e sociale che sembra essere un "carattere originale" del modello corrente (e senza concorrenti). Tanto che l'Outlook stimola una domanda di non poco conto: se il mercato del lavoro è il principale canale di distribuzione della ricchezza e la nuova crescita genera poca occupazione (e spesso scadente), questo mercato sta funzionando bene?

Ripresa senza lavoro
Il confronto dell'evoluzione dei tassi di disoccupazione negli ultimi sette anni (Q4 2007, Q4 2013 e proiezione al Q4 2015) in alcuni paesi di riferimento e aree chiave (Figura 1) permette di intuire quanto sia ancora difficile parlare di "ripresa". Con l'esclusione della Germania e del Giappone (un mondo a sé stante), né la zona Euro, né la media OECD e nemmeno gli Stati Uniti sono tornati ai livelli del 2007 (intorno al 6%) con i paesi anglosassoni ormai ben avviati mentre l'Eurozona è a tutti gli effetti al punto zero visto che il tasso attuale è di poco inferiore al 12% e coincide ancora con il picco specifico dall'inizio della recessione. Questa condizione interessa anche l'Italia che mostra al contempo il più marcato peggioramento (dal 6,2% del 2007 al 12,4% del 2013) e modeste prospettive per il 2015. La sola, anzi, la solita eccezione riguarda la Germania che dal 2007 ad oggi ha addirittura migliorato la propria posizione, una performance da attribuire alle riforme lungimiranti intraprese dal Governo Schröder (i cosiddetti "piani Hartz") e, probabilmente, a una regolazione della moneta unica particolarmente favorevole all'apparato produttivo tedesco.

Vecchi problemi assumono nuove forme
Dinamiche simili si rilevano dall'analisi della disoccupazione di lunga durata (superiore a 12 mesi) in percentuale del totale dei disoccupati (Figura 2), con la Germania e pochi altri paesi di minori dimensioni che hanno migliorato la propria posizione e i restanti (quasi tutti) ancora in recupero rispetto al 2007. Il grafico consente tuttavia di intuire la natura non solo congiunturale di questa condizione che interessa mediamente nei paesi OECD (così come nei G7) più di un terzo delle persone in cerca di lavoro mentre in Europa è ampiamente sopra il 40% (60% in Italia) tanto che il rapporto considera questo indicatore il primo da tenere in considerazione per misurare la crescente componente strutturale della disoccupazione registrata negli ultimi anni. Se si considera che la partecipazione al mercato del lavoro è la principale determinante dell'occupabilità delle persone (in sostanza ha più probabilità di trovare lavoro chi ha già lavorato) si delinea all'orizzonte un problema di nuove proporzioni per i policy maker, problema che la sola congiuntura economica favorevole difficilmente sarà in grado di risolvere.


La stessa riflessione vale per il ricorso ai contratti a termine. La Figura 3 confronta l'incidenza delle assunzioni di durata inferiore a tre mesi tra 2007 e 2012 e ne segnala una complessiva espansione (posizioni al di sopra della diagonale) seppure con intensità molto diverse che vanno dal 25% della Gran Bretagna al 90% della Spagna. Tale diversità è da attribuire alla diversa funzione che le fattispecie a tempo determinato svolgono nei diversi modelli di mercato del lavoro, sostanzialmente frizionale (ossia per la gestione di specifiche necessità organizzative) nei paesi con basso costo di licenziamento (come la Gran Bretagna), strutturale nei paesi in cui il costo di licenziamento è più alto (o più incerto) tra cui l'Italia, dove la percentuale sfiora il 70%. Difficile quindi valutare in maniera univoca un fenomeno con causali così diverse. In alcuni casi l'ampio ricorso alla flessibilità in entrata è la conseguenza negativa della cattiva regolazione di quella in uscita, in altri si configura come uno strumento per rendere più dinamico il mercato del lavoro offrendo alle persone la possibilità di "provare" (in particolare le categorie più marginali) e alle imprese una più rapida capacità di aggiustamento.
Il nodo quindi non è il ricorso al lavoro a tempo determinato in sé ma bensì la sua funzionalità a dinamiche positive per le imprese (flessibilità) e, soprattutto, per le persone (sicurezza), prima quale viatico per il primo ingresso (o il re-ingresso) nel mercato del lavoro e poi come percorso verso il lavoro standard open-ended. E' alla luce di questa chiave di lettura che l'Outlook suggerisce di esaminare il problema puntando l'attenzione in particolare sul tasso di transizione a tre anni dal lavoro temporaneo a quello a tempo indeterminato (Figura 4) e segnalando da una parte paesi con percentuali inferiori al 25% e alto rischio di "intrappolamento" in meccanismi di path dependence (Grecia, Spagna, Italia, Francia, Irlanda) e altri con percentuali superiori al 50% (i paesi scandinavi e la Gran Bretagna in particolare) in cui la flessibilità in entrata è orientata nella giusta direzione. La vera questione, in estrema sintesi, non è la componente congiunturale della disoccupazione o quella frizionale del lavoro a termine, ma bensì quella strutturale di entrambi.

Lo stesso prezzo per tutti?
Meno sorprese, ma non minori incertezze, arrivano dall’analisi delle dinamiche salariali. La crisi globale e la fase successiva hanno posto sotto pressione le retribuzioni di chi il lavoro non lo ha perso secondo una dinamica in buona parte fisiologica. La temporanea moderazione salariale (che non solo riguarda solo i minimi contrattuali ma anche le componenti accessorie e il ricorso agli straordinari) è infatti una premessa della ripresa stessa perché riduce il costo unitario del lavoro favorendo la competitività delle imprese. La Figura 5, che mostra la percentuale di lavoratori interessati da riduzioni sul totale degli occupati full-time, segnala un valore medio dei paesi OECD intorno al 50% e un range che va dal 40% al 60%, con i paesi europei meno esposti in ragione della più ampia diffusione di minimi salariali. Il nodo, anche in questo caso, non è il fenomeno in sé ma la sua distribuzione tra le diverse fasce di reddito. La Figura 6 segnala una chiara correlazione tra livello delle retribuzioni e il livello di qualificazione dei lavoratori, peraltro con un’intensità maggiore rispetto alle discriminanti “classiche” di genere e di età. Tenuto conto della crescente disparità retributiva sia nelle organizzazioni che nel mercato del lavoro nel suo complesso, questo è un altro fattore che, segnala l’Outlook, dovrà essere affrontato con strumentazioni innovative.

Un accenno è infine necessario proprio sulle donne e i giovani su cui si ribadiscono ben noti meccanismi di discriminazione in termini di reddito, sicurezza e qualità dell’occupazione che appaiono però (non da oggi) attenuati secondo la dimensione di genere e molto più marcati secondo quella anagrafica (Figura 6). Quest’ultima, in particolare, deve essere analizzata specificamente visto che la difficoltà di partecipazione giovanile al mercato del lavoro sembra prescindere dai modelli di organizzazione e regolazione (il tasso di occupazione cala indistintamente in Europa, negli USA e nei restanti paesi OECD) e, alcuni casi, anche dalla congiuntura economica. Sarà interessante dedicare una scheda di Quadrante Futuro proprio a questo argomento.

Le indicazioni di policy
Lo sforzo analitico dell'Employment Outlook è davvero notevole. Non solo non rinuncia a selezionare i principali effetti quantitativi e qualitativi della "lunga recessione" sul mercato del lavoro evidenziandone le specifiche componenti patologiche ma delinea anche delle indicazioni di policy che sono oggi di stringente attualità, nonostante la pubblicazione sia stata chiusa lo scorso anno. Nello spazio limitato di questa scheda è utile citarne tre in particolare:
- sul tema della disoccupazione di lunga durata e dei meccanismi di "intrappolamento" nel mercato duale, il richiamo alla necessità, soprattutto nel Vecchio continente, di ristabilire la centralità del contratto standard a tempo indeterminato attraverso la promozione di un contratto "unico" che sia in grado di contemperare accettabili e, soprattutto, prevedibili costi di assunzione e licenziamento per le imprese a fronte di una crescente tutela del lavoratore;
- in merito alla disparità salariale, la proposta di rimodulazione degli oneri indiretti della retribuzione attraverso l'applicazione del principio di progressività non soltanto sul piano fiscale ma anche per le componenti contributive e assicurative del costo del lavoro. Il principio di fondo è che la distribuzione dei costi relativi alla dimensione "assicurativa" del rapporto di lavoro non debba essere applicata proporzionalmente al reddito ma debba piuttosto crescere progressivamente all'aumentare del reddito;
- sul tema della disoccupazione giovanile e più in generale dei problemi di ingresso e re-ingresso nel mercato del lavoro, il contrasto del mismatch tra capacità e competenze delle persone e le necessità di adattamento della domanda (Figura 7), riduzione che secondo l'Outlook può essere raggiunta attraverso modelli didattici che attribuiscano più centralità all'esperienza formativa nei luoghi di lavoro e allo sviluppo di competenze trasversali e relazionali propedeutiche all'apprendimento stesso: il tema quindi non è solo ciò che si sa ma ciò che si è in grado di imparare.
Non è dunque un rapporto neutrale quello dell'OECD. Da una parte non omette di sottolineare le difficoltà del mercato del lavoro quale sistema di distribuzione della ricchezza e delle opportunità, una tentazione molto diffusa da parte di molti economisti che considerano il lavoro nella migliore delle ipotesi un fattore produttivo e nella peggiore una semplice variabile dipendente. Dall'altra non scade in retoriche anticapitaliste ma semmai evidenzia proprio nei "fallimenti" del mercato le origini dei problemi e nella loro correzione la soluzione degli stessi.