Il Gran Canal Interoceanico del Nicaragua porrà fine al monopolio del canale di Panama e ridurrà i tempi di percorrenza dall'Europa alla Cina e al Giappone
Visto sulla mappa, è solo una linea colorata che taglia in due il continente americano.
Il Gran Canal Interoceanico del Nicaragua è, però, molto di più. Il passaggio navale è attualmente uno dei più grandi lavori ingegneristici in atto al mondo. Oltre al canale, infatti, il progetto comprende la costruzione di due porti, una zona di libero scambio, centri vacanze, autostrade, una centrale elettrica e un aeroporto internazionale.
E poco importa se poco più a sud è operante, da oltre un secolo, il canale di Panama (Figura 1).
Potranno attraversarlo navi porta container post-panamax e super-postpanamax, lunghe quasi 400 metri, fino a 400mila tonnellate (troppo grandi rispetto alle 60mila tonnellate consentite nel Canale di Panama) e sarà largo da 230 a 520 metri, profondo da 27,6 a 30 metri e lungo 278 km, di cui 105 percorsi nel grande lago Cocibolca.
Il canale collegherà il Mar dei Caraibi, da punta Gorda, passando per il lago Nicaragua (o Cocibolca) per poi tagliare l’istmo di Rivas e arrivare, dopo circa 30 ore di navigazione, alla foce del fiume Brito, nell’oceano Pacifico (Figura 2).
L’idea del canale era caldeggiata da tempo. Gli Stati Uniti alla fine del XIX secolo, prima di optare per Panama, avevano svolto approfonditi studi in Nicaragua.
Ma solo ora la situazione geopolitica globale e l’incremento del traffico marittimo mondiale rende il progetto economicamente sostenibile. Il canale di Panama è insufficiente per garantire la domanda dei traffici commerciali tra i due oceani, anche se dopo i lavori di ampliamento, inaugurati un anno fa, potrà consentire teoricamente il passaggio di circa il 79% del naviglio commerciale mondiale anche se Panama rappresenta solo il 5% del traffico mondiale non petrolifero dei trasporti interoceanici.
Il presidente Daniel Ortega (Figura 3) è riuscito dove il suo predecessore Enrique Bolaños con le cordate americane ed europee non era riuscito. Con un progetto da quasi 50 miliardi di dollari, in maggioranza provenienti da investimenti cinesi, il presidente nicaraguegno nel 2013 ha siglato un accordo con la società Hong Kong Nicaragua Canal Development Investmet Company (HKND) guidata dal 40enne Wang Jing, titolare anche dell’azienda di comunicazione Xinwei. In cambio il presidente sandinista ha ceduto alla HKND una concessione di 40 anni per la gestione dell’opera con un'opzione per un rinnovo di altri 50 anni.
I lavori (Figura 4), che sono iniziati il 22 dicembre 2014 e che dovrebbero concludersi entro il 2019 e aprire al traffico interoceanico nel 2020, avranno un impatto certamente positivo sull’economia del secondo paese più povero d’America (gli investimenti totali sono quasi quattro volte il PIL nazionale) e che deve gestire un tasso di disoccupazione al 47% (Figura 5).
Si stima che i capitali e l’economia dell’indotto del canale potrebbero far duplicare l’attuale Pil nazionale del Nicaragua (pari a 13,23 miliardi di dollari nel 2016 – Figura 6).
Il Gran Canal rappresenta il termine del monopolio del traffico interoceanico del canale di Panama (anche se quest’ultimo supporterà navi di stazza più piccola) e inoltre è molto più vicino ai mercati americani, riducendo i tempi (e quindi i costi) di percorrenza dall’Europa alla Cina e ai porti del Giappone.
Il mercato planetario delle rotte marittime nell’America centrale non si limita solo a Panama e Nicaragua, ci sono altri paesi che spingono per entrare a pieno titolo nel controllo del traffico delle rotte commerciali (Figura 7).
Hanno infatti progetti in via di programmazione e realizzazione Costa Rica, El Salvador, Honduras (che nel progetto intermodale interoceanico ‘El canal seco’ vede coinvolte società cinesi, canadesi e l’italiana Salini-Impregilo) e Guatemala, che porta avanti il progetto di un collegamento di 372 km per 140 metri di larghezza tra i porti di San Luis e San Jorge del costo di oltre 12 miliardi di dollari.
Oltre che da gateway per grandi navi commerciali tra Europa, America e Asia, queste faraoniche infrastrutture assumono un peso geopolitico di primissimo piano. La congiunta sovranità della zona del canale di Panama tra gli Stati Uniti e Panama tramite i trattati Hay-Bunau Varilla e Torrijos-Carter e successivamente il diritto di intervenire militarmente nell'interesse della sicurezza nazionale da parte degli Stati Uniti nel caso in cui l'accessibilità e la continuità dei collegamenti del canale fossero in pericolo sono dei chiari esempi del valore geostrategico di queste opere.
Il Gran Canal non rappresenta solo un altro anello alla supply chain del Celeste Impero, anche se la Cina ha sempre smentito rapporti ufficiali con questo progetto, ma la conferma di come la posizione geografica possa avere una valenza geopolitica.
L’ormai rodata strategia dello string of pearl (filo di perle) cinese viene, di fatto, esportata fino al continente americano rafforzando il proprio sea power tramite investimenti, costruzione di opere infrastrutturali e il successivo controllo dei choke-points.
Oltre all’assertività nel controllo dei flussi marittimi cinesi, questi investimenti sono anche la conferma che l’importanza dei fattori fisici, tra cui le caratteristiche del luogo geografico enunciati dalla geopolitica classica non sono, peraltro, scomparsi.
Fattori permanenti del determinismo geografico che devono, però, fare i conti con un altro presupposto della geopolitica classica: la cosiddetta missione mahaniana (che prende il nome dall’ufficiale di marina Alfred Thayer Mahan, 1840 –1914) cioè la necessità di mantenere aperta “la grande arteria” marittima, gli oceani. Controllo dei mari di cui la Cina attualmente non dispone: non ha, infatti, una flotta blue-water navy capace di assicurare la proiezione del potere lontano dai mari di casa.
Per ora anche i lavori del Gran Canal sembrano arrancare tra problemi d’impatto ambientale (Figura 8) e finanziamenti. Molte le proteste ambientaliste in difesa dell’ecosistema e contro la deforestazione (sarebbero interessati 193mila ettari di boschi), la pesante cementificazione, l’accesso all’acqua, il potenziale inquinamento del suolo e delle acque e la possibile salinizzazione delle acque lago Nicaragua, il più grande dell’America centrale, sulle cui acque, a regime, potrebbero passare fino a 5100 navi l’anno.
A queste proteste si aggiungono quelle degli indios Ramas e Nahuas per gli espropri delle terre e per i 277 i villaggi che verrebbero demoliti per la costruzione del canale, malcontento che si somma alla ritrosia degli Stati interessati al mantenimento dello statu quo ante la costruzione di queste nuove vie.
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