Le negoziazioni della Brexit saranno un processo lungo con una serie crescente di dubbi e incognite
Un anno dopo il voto della Brexit, tenutosi il 23 giugno 2016, a farla da padrone è l’incertezza, con una serie crescente di dubbi che aleggiano sul Regno Unito. Chi si attendeva una soluzione rapida alla questione è rimasto deluso. Uno dei pochi punti fermi, infatti, è che le negoziazioni della Brexit saranno “una cosa lunga”. Molto probabilmente ben più dei due anni previsti dall’articolo 50.
All’indomani del voto, che ha sancito la volontà popolare di un’uscita del Regno Unito dall’UE, né il governo, né gli altri partiti avevano un piano sul come procedere. Dopo le dimissioni di Cameron ed una fase iniziale piuttosto caotica, l’insediamento al numero 10 di Downing Street da parte di Theresa May sembrava aver aperto le porte verso la Brexit. Più precisamente verso una hard Brexit, cioè un’uscita dall’Unione Europea a tutti i costi, se necessario anche nel caso in cui non fosse stato raggiunto un accordo con Bruxelles, come ricordato dal motto no deal is better than a bad deal (affermazioni molto discusse dagli economisti). La priorità, per la First Lady, era legata al contenimento dell’immigrazione ed alla sovranità della giurisprudenza nazionale, mentre la libera circolazione delle merci era messa in discussione, con crescenti rischi di perdere il libero scambio europeo. Anche in questo caso, però, gli inglesi non avevano troppa fretta di avviare le pratiche per l’uscita dall’Unione Europea. La famosa lettera per l’invocazione dell’articolo 50, infatti, veniva consegnata da Sir Tim Barrow - ambasciatore britannico a Bruxelles – al Presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, soltanto il 29 Marzo 2017, oltre nove mesi dopo il voto della Brexit.
Tre settimane più tardi, Theresa May, a sorpresa, convocava le elezioni generali anticipate, con una mossa volta a annientare definitivamente l’avversario di sempre: il partito laburista. Gli strateghi dei Tories, infatti, le consigliavano questa scelta visti i 20-22 punti percentuali di vantaggio attribuiti dai sondaggisti, suggerendo una campagna elettorale lampo, per non dare alcuna chance di rimonta ai Labour. Le stime, a quel punto, davano i conservatori intorno ai 380-400 seggi, con una maggioranza che si sarebbe dovuta aggirare fra le 60 e le 80 unità, ridimensionando, nel frattempo le velleità di frenare la Brexit della Scozia, dei Lib Dem e dei Labour. Ma si sa, la storia è fatta per stupire e Theresa May, dopo aver visto a fine aprile il vantaggio dei Tories lievitare ad un record ventennale di 24 punti, ha iniziato a perdere consensi. In parte a causa del dietrofront sul social care, dopo aver rinnegato parte delle promesse elettorali in merito al sistema sanitario, soprattutto per gli anziani, ma anche per una serie di apparizioni poco felici nei dibattiti televisivi.
Nei salotti dei talkshow la May è spesso apparsa incerta, a differenza del suo sfidante. Quel Jeremy Corbyn, uomo spesso poco amato anche all’interno del suo partito, che ha saputo catalizzare i voti dei giovani, ribaltando un esito elettorale che appariva ormai scritto. La terribile serie di attentati (Westminster Bridge – Manchester – London Bridge) ha trasmesso un crescente senso di incertezza alla popolazione, ma anche l’opinione che la sicurezza non avesse avuto il giusto peso nelle scelte del governo.
In questo scenario la rimonta di Corbyn è proseguita costante, al ritmo di 3 punti percentuali a settimana. Pur avendo numericamente perso, è stato lui il vincitore del voto, capace di riconquistare oltre 30 seggi per i labour. Il voto dell’8 giugno 2017, infatti, ha privato Theresa May della maggioranza, spingendola ad una difficile alleanza con gli unionisti nordirlandesi, le cui pretese, in tema Brexit, ma non soltanto, saranno poco facilmente accoglibili dal governo di Westminster. Questo voto, oltre a segnare la ripresa dei labour ed il calo dei conservatori, esclude anche dal parlamento l’UKIP, il partito guidato fino ad un anno fa da Farage. Recuperano terreno i LibDem, mentre frena il partito nazionale scozzese (SNP), uno dei più accaniti oppositori dell’hard Brexit di Theresa May, che scende da 56 a 35 seggi.
In questo complesso scenario politico l’economia britannica ha mostrato un andamento a due facce (Figura 1). Dopo un’iniziale frenata, il pil ha continuato a correre nel finale del 2016 (+0,5 nel terzo trimestre, +0,7% nel quarto trimestre), spinto al rialzo dal calo della sterlina. Ma potrebbe essersi trattato di un mero fuoco di paglia, cono il 2017 che si è aperto in deciso rallentamento. Il modesto +0,2% del primo trimestre complica i piani del governo di raggiungere lo sperato +2% su base annuale (che rappresenterebbe comunque un valore più basso rispetto a quelli ottenuti fra il 2013 ed il 2016).
Nel frattempo, a preoccupare la Bank of England, è soprattutto la corsa dell’inflazione (Figura 2). Dopo essere arrivata per alcuni mesi anche in territorio negativo, la crescita dei prezzi è ripartita in seguito al voto della Brexit. Il +0,3% di inizio 2016 ha toccato l’1% a settembre 2016, per salire a 1,6% nel dicembre 2016 ed accelerare ulteriormente a +2,2% nel marzo 2017. Un trend proseguito ad aprile e maggio, con i prezzi in crescita del +2,9%, ben oltre il target del 2% prefissato da Mark Carney. E fra le cause dell’inflazione dobbiamo senz’altro annoverare il crollo del pound, che ha perso oltre il 15% del suo valore dal giorno della Brexit. Sui mercati valutari il cambio fra euro e sterlina (Figura 3), scambiato a 0,76 nella fatidica data del 23 giugno 2016, viaggia ora fra 0,87 e 0,88, mentre con un pound si possono acquistare soltanto 1,27 dollari, contro gli 1,50 di un anno fa (Figura 4).
Resta invece bassa la disoccupazione (Figura 5), ma va sottolineata la frenata di arrivi degli europei, scoraggiati dalle vicende Brexit. Sul fronte immobiliare i prezzi delle case provano a reggere l’ondata d’urto delle tante partenze. Le quotazioni degli immobili fuori da Londra hanno ancora registrato prezzi in leggera salita, mentre nella capitale il trend ormai appare in declino, con cali a due cifre nelle area più lussuose della capitale come Chelsea e Kengsinton.
La City, e probabilmente non solo lei, vive nella trepidante attesa di poter conoscere le sue sorti. Da un lato è certo il fatto che Londra sia destinata a rimanere cruciale nel mondo finanziario futuro, dall’altro è però altamente probabile che lo debba riuscire a fare senza il passaporto finanziario dell’UE. In altre parole la Brexit potrebbe portare Londra a perdere l’accesso ai clienti del mercato europeo. E qui si aprirebbero, dall’aprile 2019 in poi, annose battaglie legali, mentre molte istituzioni finanziarie hanno già fatto sapere di essere pronte a traslocare da Londra in caso di Hard Brexit. Verrebbe da dire che le parole di Lorenzo de’Medici “Di doman non v’è certezza” possano rappresentare correttamente la situazione britannica e, forse, anche i pensieri degli stessi britannici, fuggiti in massa dall’UKIP, crollato dal 12,7% all’1,8% in appena due anni.
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