La situazione della Serbia dopo le recenti elezioni è caratterizzata da una profonda ambivalenza, nella speranza di aderire all'Unione Europea senza guastare i rapporti con la Russia

Le elezioni per il rinnovo del Parlamento nazionale che si sono svolte in Serbia hanno avuto un carattere di eccezionalità e hanno costituito, per molti aspetti, un prologo appropriato per le successive elezioni austriache del 22 maggio, una conferma dell'instabilità politica di fondo che caratterizza le terre bagnate dal Danubio, da vari anni non più sotto i riflettori dell'attualità internazionale ma non per questo meno percorse da contrasti e inquietudini. Questa instabilità e queste inquietudini caratterizzano, più in generale, l'intera Europa

Nel caso serbo si è trattato sia di un anticipo di due anni rispetto ai tempi previsti dalla Costituzione, sia di una decisione a sorpresa del Primo Ministro, Aleksandar Vučić, leader del Partito Progressista Serbo (SNS) nazional-conservatore. Una mossa che ha stupito non pochi osservatori, in quanto il partito al Governo stava riscuotendo un consenso inferiore rispetto a quello della sua prima elezione. Tale valutazione è stata effettivamente confermata dal risultato delle votazioni: il Partito Progressista si è assicurato 133 dei 250 seggi totali, rispetto ai 158 ottenuti nella precedente tornata elettorale (2014) e per raggiungere la maggioranza parlamentare dei due terzi ha dovuto imbastire un'alleanza con il Partito Socialista della Serbia (SPS) (Figura 1). Qui sta l'elemento veramente allarmante, (anche se prevedibile) della consultazione e cioè l'avanzata del Partito Radicale Serbo (SRS), ultra-nazionalista, di estrema destra e filo-russo. Il suo leader, Vojislav Šešelj, era stato da poco assolto dal Tribunale Penale Internazionale dell'Aja (TPI) per crimini di guerra compiuti durante il conflitto degli anni Novanta.


Nel giustificare la sua decisione, Vučić ha addotto varie motivazioni, riassumibili nella ricerca di un nuovo mandato parlamentare per realizzare le riforme necessarie perché la Serbia inizi il suo cammino verso l'integrazione europea. E' però ragionevole pensare che il premier abbia soprattutto voluto assicurarsi un altro mandato di quattro anni, invece dei soli due che gli rimanevano, mettendosi al riparo da una prevedibile, progressiva perdita di consensi nei prossimi anni, a causa della profonda crisi economica e sociale che tutti i Balcani stanno vivendo dal 2007 e che non sembra poter terminare in breve tempo. Il tutto risulta confermato dalle statistiche, che registrano una progressiva decrescita del PIL con un nuovo rallentamento nel 2014, dopo la lieve ripresa del 2013 (Figura 2).
Ancora più a monte si intravedono motivazioni più profonde di politica estera. A causa della loro posizione geografica, i Balcani sono, infatti, da lunghissima data, oggetto di una durissima contesa, più o meno velata, fra Occidente e Russia. La Serbia, da sempre Paese dominante della regione, è storicamente il teatro decisivo di tale contrapposizione.
Ed è precisamente la volontà di far propendere Belgrado verso una delle parti in causa, l'Europa, nonché la necessità di evitare il rischio che la fine naturale del mandato potesse portare a uno stallo operativo, che ha probabilmente spinto Vučić a uno stratagemma politico per prolungare il tempo a disposizione. Dal 2014, infatti, il suo Governo ha avviato i negoziati per l'ingresso del Paese nell'Unione Europea e ha impostato il varo delle riforme raccomandate dalla Commissione. Tali riforme dovrebbero partire a giugno 2016 e riguardano temi a dir poco delicati, come giustizia, diritti fondamentali e sicurezza nazionale.

La Serbia è profondamente interconnessa a numerosi Stati Membri dell'UE grazie a intensi rapporti commerciali. In particolare, Belgrado rappresenta un'importante partner per l'Italia, che si posiziona, secondo quanto riportato dalla World Bank (Trade at a glance, Serbia Top 5 Export and Import Partners-2014) come primo Paese acquirente, seguita da Germania e Bosnia (Figura 3) e al terzo posto come Paese fornitore, dopo Germania e Russia. Infatti secondo i dati ICE (Istituto Commercio Estero), che purtroppo sono fermi al 2013, l'interscambio commerciale con la Serbia ha raggiunto i 4 miliardi di euro, con esportazioni pari a 1,6 miliardi da parte dell'Italia, principalmente nei settori dell'industria automobilistica, dell'abbigliamento e della meccanica strumentale (Figura 4). A questo si aggiunge l'investimento estero sul territorio serbo, che vede il nostro Paese al primo posto, con la presenza di oltre 500 aziende nazionali (fra cui FIAT/FCA) Gruppo Benetton, Calzedonia), nonché di importanti gruppi bancari e assicurativi (IntesaSanpaolo, Unicredit, Generali). Infine, interessanti scenari si sono recentemente prospettati per le imprese italiane, tra l'altro nei settori delle energie rinnovabili e delle infrastrutture (Belgrado coordina insieme all'Italia le vie di comunicazione della macroregione Adriatico-Ionica).
Alle connessioni economiche con l'Europa fanno da contrappunto quelle con la Russia (Figura 5). È necessario sottolineare che Mosca rappresenta per la Serbia un alleato importante sotto molti punti di vista, in primo luogo quello economico. Tra i due Paesi vige infatti un accordo di libero scambio e come si è visto sopra, la Russia è il secondo paese fornitore della Serbia dopo la Germania. Non bisogna però dimenticare le profondissime affinità etnico-religiose di Serbia e Russia. I serbi, come i russi, sono una popolazione cristiano-ortodossa e nel loro nazionalismo, l'appartenenza a tale religione è sempre stata vista come elemento di forte distinzione e superiorità nei confronti delle altre etnie balcaniche. Basti pensare che proprio la diversità di confessione fra i serbi e i bosniaci è stata uno dei motivi delle guerre che hanno devastato l'ex-Jugoslavia dopo negli anni Novanta.

La Russia costituisce inoltre per i serbi un importante e tradizionale alleato politico. La Serbia continua infatti a non cedere alle pressioni dell'Occidente per il riconoscimento della sovranità del Kosovo ed è in questo spalleggiata da Mosca. Nonostante la pressione dell'Unione Europea, nonché l'Accordo di Bruxelles (siglato fra i due Paesi nel 2013 e che prevede una sorta di doppia cittadinanza per i serbi residenti in Kosovo), i tentativi di dialogo sono al momento pressoché assenti.
Oltre a questo contrasto latente tra Europa e Russia, risultano estremamente complicate le relazioni della Serbia con altri due Paesi sorti dal collasso della Yugoslavia, la Croazia e la Bosnia Erzegovina. La Croazia, divenuta Paese membro dell'UE il 1 luglio 2013, dopo lunghissime trattative e un referendum tenutosi nel 2012, minaccia di ostacolare l'adesione della Serbia, qualora quest'ultima continui a rifiutare di ammettere davanti al TPI dell'Aja la propria responsabilità per i crimini di guerra verso bosniaci e croati durante il conflitto di vent'anni fa.
Anche le relazioni con la Bosnia Erzegovina risultano poco rosee. Gli Accordi di Dayton, infatti, siglati su pressione degli Stati Uniti nel 1995 a conclusione della Guerra dei Balcani, hanno istituito in questo Paese una struttura governativa estremamente complessa, che prevede un'alternanza al potere fra rappresentanti delle diverse etnie presenti sul suo territorio, appunto bosniaci, croati e serbi. Naturalmente, questo sistema di vari pesi e misure garantisce alla Serbia una vasta ingerenza negli affari interni di Sarajevo, dietro il vessillo della salvaguardia degli interessi dell'etnia serbo-bosniaca.

In un'area così complessa dal punto di vista geo-politico, come sono i Balcani, è innegabile che la Serbia non voglia rinunciare alla sua tradizionale egemonia regionale, come invece l'Unione Europea, e in generale l'Occidente, la invitano a fare. Per questo non vuole voltare le spalle alla Russia.
Tornando al nuovo assetto post-votazioni a Belgrado, si potrebbe rintracciare un secondo filo conduttore nella decisione di Vučić che ha portato ad elezioni anticipate. Consapevole della propria perdita di consensi, nonché del successo del Partito Radicale, Vučić ha puntato anche a sfruttare il successo di tale partito per conservare l'appoggio del Cremlino. Šešelj e i suoi militanti sono infatti dichiaratamente sostenuti da Mosca, la quale potrebbe altrimenti negare il suo appoggio a Belgrado, a causa della politica filo-occidentale del premier.
La situazione attuale della Serbia è caratterizzata dunque da una profonda ambivalenza. Da un lato, il premier vuole lavorare per l'adesione della Serbia all'Unione Europea e potrebbe aver anticipato le votazioni al fine di garantirsi più tempo per il raggiungimento di questo obiettivo. Dall'altro, queste elezioni potrebbero essere state stumentalizzate per dare un maggior peso politico al partito filo-russo ed evitare così di inimicarsi il Cremlino.
Queste dinamiche si sono ripresentate, in maniera più o meno simile, in altri Paesi un tempo sotto l'influenza sovietica; tuttavia, è innegabile la precarietà dell'equilibrio instauratosi fra le popolazioni balcaniche, una situazione tanto instabile quanto sottovalutata dalle potenze occidentali.