I percorsi lavorativi per promuovere l’occupazione e la dignità dei detenuti concorrono a creare una vera e propria “economia carceraria”

Nel momento in cui si potrebbe profilare il rischio di un nuovo lockdown, termine che arriva dalle carceri americane, non è inappropriato occuparci di economia carceraria, anch’essa non immune alle conseguenze dell’epidemia.
La scorsa primavera 2020, all’avvio delle prime restrizioni per Covid-19, in Italia avevano occupato parte della cronaca le notizie e le immagini di proteste (con sequestri di agenti della polizia penitenziaria e operatori sanitari) e i tentativi di evasione in molti istituti di pena lungo tutto il territorio nazionale (da Milano a Palermo). Complessivamente rivolte o proteste sono avvenute in 27 carceri (tra cui Poggioreale, Frosinone, Salerno, Ancona, Foggia, San Vittore, Rebibbia, Ucciardone e Pavia) e sono state moderate, nei giorni successivi, anche grazie alla mediazione delle autorità civili che hanno promosso un potenziamento dei canali di comunicazione tecnologici (l’ordinamento penitenziario prevede una telefonata a settimana per 10 minuti).

I motivi delle reazioni esacerbate ruotavano sostanzialmente attorno alle limitazioni di contatti con il mondo esterno. Il 22 febbraio 2020, infatti il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria aveva emanato una prima circolare per disporre il divieto a tutti i volontari e i familiari dei detenuti residenti nelle zone rosse di accedere negli istituti penitenziari. Nei giorni seguenti la chiusura forzata al mondo esterno si è estesa anche con limitazioni ai colloqui, prima in modo disomogeneo sul territorio italiano, poi in modo generalizzato con la sospensione totale delle visite dei familiari prevista dai decreti ministeriali dell’8 e 9 marzo 2020.
Se è chiaro lo scopo precauzionale degli interventi che hanno dato adito a tante proteste è forse meno nota in termini quantitativi la pregressa situazione e la qualità di vita nelle carceri.
La situazione carceraria in Italia: in generale, la situazione ai limiti di contenimento negli istituti di pena è dovuta ai dati sul sovrappopolamento carcerario - giudicato sistemico e strutturale (Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, 2013, Sentenza Torreggiani)-. Secondo il XVI Rapporto sulle condizioni detentive pubblicato dall’associazione Antigone, attualmente, i detenuti sono 60.439 (contro 50.511 posti disponibili) e, nonostante negli ultimi anni si siano registrati dei momenti di flessione del tasso di affollamento (per l’indulto nel 2006 e, poi, dal 2010 per la dichiarazione governativa dello stato di emergenza penitenziaria e i provvedimenti deflattivi di esecuzione domiciliare delle pene minori), nell’ultimo quinquennio la curva ha ripreso un andamento crescente (Figura 1).
Tra le cause dei numeri aumentati, si annoverano la riduzione del fenomeno “porte-girevoli” (ovvero la permanenza in carcere di arrestati in flagranza di reato per periodi brevissimi) e l’allungamento delle pene scontate dai detenuti condannati in via definitiva.


Analizzando i dati delle Regioni italiane, il maggiore tasso di affollamento dei detenuti (ovvero un numero di presenti superiore alla capienza e quindi una percentuale superiore al 100%) si riscontra in Puglia, mentre sono escluse dal fenomeno solo Sardegna e Trentino Alto Adige (Figura 2). In più, su un campione valutato da Antigone, solo nel 18,8 per cento dei casi vengono garantiti i 3 metri quadri di spazio a persona. Anche per questo, nel 2019 il tasso di suicidi nelle carceri è stato pari a 8,7 su 10.000 individui (contro un’equivalente nel Paese di 0,65) e vi sono istituti penitenziali in cui gli atti di auto-lesionismo raggiungono quota di 110,43 ogni 100 detenuti (come il caso di Campobasso).
La crescita della popolazione italiana detenuta non rispecchia però l’andamento che si registra in Europa, dove il trend è negativo con un valore medio di -10,3 (Figura 3). Secondo le analisi di Antigone ciò dipenderebbe anche da un’inefficace intervento italiano sul tema droga, che in Italia è una delle principali cause di ingresso e permanenza in carcere, con valori oltre il 30 per cento dei casi, quando la media europea è pari al 18 per cento (Figura 4).
In più, l’Italia si discosta dal resto dell’Europa anche per altri elementi, tra cui il numero di stranieri nel sistema penitenziario (33,6 per cento quando la media europea è pari al 20 per cento), la durata della pena (Figura 5) e il numero dei detenuti per agente (Figura 6).

L’economia carceraria: all’interno di queste dinamiche, posto che prioritariamente, per i dettami costituzionali, le pene devono tendere alla rieducazione del condannato (Costituzione Italiana, articolo 27) e ricordando che le condizioni carcerarie misurano il grado complessivo di civiltà di un paese, come storicamente condiviso (si pensi ad esempio a Voltaire e Brecht), vengono attivati dei virtuosi percorsi lavorativi per promuovere l’occupazione e la dignità dei detenuti che concorrono appunto all’“economia carceraria”.
L’Amministrazione penitenziaria si attiva, infatti, fattivamente affinché tutte le persone detenute possano acquisire adeguata professionalità, capacità e competenze specifiche per inserirsi nel mercato del lavoro, da un lato, assegnando fondi e, da un altro lato, stipulando intese ed accordi con i maggiori consorzi cooperativi. Inoltre, vi sono interventi normativi agevolativi (come la legge n. 193 del 2000, nota come Smuraglia) che prevedono sgravi contributivi e fiscali per le imprese e le cooperative che assumono detenuti.
Così, grazie a questo orientamento, il 27,62% della popolazione carceraria lavora alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria stessa, oppure di soggetti terzi (imprese private o cooperative), con effetti positivi sull’acquisizione di professionalità spendibili sul mercato del lavoro al termine dell’esecuzione della pena (Istat, 2015, I detenuti nelle carceri italiane, Roma).
L’occupazione risulta in aumento particolarmente nella componente femminile (+38,5%) e straniera (+78,6%) e, secondo le rilevazioni, le richieste di lavoro dall’esterno hanno ricevuto particolare slancio grazie ad interventi legislativi ad hoc, come la disciplina delle Cooperative Sociali.
Va detto, però, che una mappatura delle iniziative intraprese in Italia (in cui i principali comparti attivati risultano il settore meccanico, sartoriale e culinario) allerta sul rischio che, negli istituti “ il sovraffollamento, la turnazione continua e la riduzione dell'orario di lavoro pro capite, necessarie per garantire un minimo livello occupazionale e una fonte di sostentamento, non consentano lo sviluppo di competenze professionali spendibili nel mondo del lavoro (inframurario e/o extra murario) né tanto meno possibilità formative.” (Santagata Serena, 2016, Lavoro e formazione in carcere. Una mappatura della situazione presente negli istituti penitenziari in Italia, Adapt, p.3).
A ciò, in un certo modo, suppliscono gli interventi in formazione, con 1.139 corsi scolastici attivati (cui risultano iscritti oltre 17.000 individui, con tassi di promozione superiori al 40%), anche a livello universitario, per quasi 500 immatricolati all’anno.

Simulatori di impresa :un felice esito degli interventi di formazione si traduce nella realizzazione di Simulatori di impresa, sostanzialmente degli incubatori, dove, dopo aver trasmesso expertise specifiche con un corso di formazione professionale, si coinvolgono gli ex-allievi nella produzione e nella commercializzazione di un bene. Le fasi di questi progetti sono [1] Valutazione qualitativa iniziale sulla capacità di produrre beni per cui esiste un mercato; [2] Sperimentazione della produzione e commercializzazione interna dei beni realizzati; [3] Evoluzione del lavoro svolto in aula in specifiche attività produttive; [4] Verifica della sostenibilità economica ed eventuale messa a regime dell’impresa. Dal punto di vista economico, l’avvio dell’attività viene sostenuto all’inizio con finanziamenti specifici, poi tramite l’autonomia finanziaria ed organizzativa dell’incubatore stesso, che diviene, così, una vera e propria impresa. La fase di commercializzazione avviene spesso tramite un ente strumentale, creato ad hoc per consentire lo sviluppo e la realizzazione di attività accessorie. I prodotti artigianali possono essere poi acquistati dagli utenti finali in store dedicati presso cooperative sociali. Anche così si può provare a contenere le forme di proteste.