Nel passato, quando le cose si mettevano male, e quindi quando le borse cadevano, il franco svizzero e lo yen si rafforzavano. Ora accade che si rafforzi anche il dollaro. La cosa non si spiega facilmente. Il franco svizzero e lo yen sono monete di paesi in avanzo di bilancio con l’estero, dunque esportatori netti di capitali. Segue che quando si ha crisi ne esportano meno, e in ogni caso, non dovendoli importare, sono poco vulnerabili. Gli Stati Uniti sono, invece, un paese deficitario con l’estero, un paese che deve importare molti capitali. Tale condizione di paese deficitario è lenita dal privilegio di emettere il debito, comprato dagli altri, nella propria moneta. Insomma, non è facile capire perché il dollaro si sia rafforzato.

Una spiegazione può essere quella proposta da Stefan Karlsson, un economista svedese. La prima premessa si basa su due evidenze empiriche e un assunto logico. Le evidenze sono: 1) i tassi d’interesse scendono quando le borse flettono (e le borse flettono quando sospettano una recessione, quindi quando anticipano una politica monetaria lasca); 2) la Svizzera e il Giappone hanno tassi d’interesse vicini allo zero. Entrambe le evidenze non sono che la registrazione di quanto accaduto nel 2007 e nel 2008. Infine – ecco l’assunto logico – i tassi d’interesse nominali non possono andare sotto lo zero. La prima conclusione che si può ricavare dalla premessa è che, quando le borse cadono, i tassi d’interesse iniziano a convergere: i più alti cominciano a scendere, e, scendendo, si avvicinano ai più bassi, i quali, se prossimi allo zero, non possono scendere.

La seconda premessa è che, se ha tassi maggiori, una valuta è relativamente più attraente di una con tassi minori (se la variazione del cambio non elimina la differenza fra i tassi). Se i tassi convergono, non si ha più una valuta chiaramente più attraente (la valuta con i tassi prossimi allo zero non può diventare, se tutti i tassi scendono, meno attraente, e quindi diventa relativamente più attraente). Chi, come un investitore giapponese, o chi, come un investitore che si indebita in Giappone, le comprava prima, perché rendevano di più, smette di comprare. I paesi che avevano un cambio forte perché pagavano tassi d’interesse elevati cominciano ad avere un cambio che si indebolisce. Ed ecco la seconda conclusione: quando le borse cadono, un paese a tassi alti (come la Gran Bretagna) vede la propria moneta cadere in rapporto a un altro paese, anch'esso con borsa in caduta, ma con tassi bassissimi (come il Giappone).

Il meccanismo spiega il comportamento del dollaro, che si era indebolito nel 2007 e nel 2008, quando gli Stati Uniti avevano iniziato ad abbassare i tassi – allora al 5,25% – mentre gli altri paesi, fra cui quelli dell’euro, non li seguivano. Poi, quando gli altri paesi hanno cominciato a seguirli, i tassi d’interesse statunitensi erano diventati ancora più bassi. Con i tassi europei in discesa e quelli statunitensi prossimi allo zero, l’euro non aveva più il vantaggio sul piano del tasso d’interesse e ha cominciato a indebolirsi. Fin qui l’analisi di Karlsson, che non discute la diversificazione delle riserve dei paesi emergenti, ancora concentrate sul dollaro. Essa spiega l’effetto del carry trade: se mi aspetto una discesa dei tassi nei paesi a tassi alti, ne vendo le attività finanziarie, che ho comprato indebitandomi nei paesi con i tassi bassi. Se ho investito all’estero indebitandomi in dollari, vendo le loro attività, poi vendo la loro valuta, infine compro i dollari con cui chiudo l’esposizione bancaria. Ed ecco il dollaro che sale con violenza e in poco tempo.

Conclusione del ragionamento: a spingere negli ultimi mesi il dollaro in alto è stato il gioco dei tassi che convergono, non la fiducia nell’economia statunitense, come si legge qualche volta.