A voler usare un eufemismo, l’opinione pubblica, in Italia e in molti altri Paesi, non prova grande simpatia nei confronti dei mercati finanziari. D’altronde, al termine finanzia si associa spesso, più o meno consapevolmente, la parola speculazione: mentre le attività legate alla produzione e al commercio sono viste con favore, quelle legate al finanziamento delle stesse sono frequentemente guardate quanto meno con sospetto, se non avversate.
Il marchio di infamia impresso sulla finanza ha radici molto lontane. Nel mondo islamico, non erano (e talora non sono tuttora) consentiti i tassi di interesse, così come secondo diverse interpretazione dell’ebraismo e anche del cristianesimo. Nel mondo cristiano, è stato d’altronde San Tommaso d’Aquino a “sdoganare”, in qualche modo e solo a particolari condizioni, i prestiti con tassi di interesse.
Perché questa pessima reputazione? Proviamo a esaminarne un paio di motivi, legati alla diversa percezione che abbiamo della finanza rispetto alle attività produttive e commerciali. In primo luogo, vediamo con evidenza l’importanza della produzione e del commercio per il soddisfacimento dei nostri bisogni. Senza agricoltura, avremmo problemi a sopravvivere, così come senza automobili faremmo (forse) una vita molto meno comoda. Al contrario, non vediamo, o vediamo meno, l’importanza della finanza: se le banche d’affari non esistessero, all’apparenza non ne verrebbe inficiato il soddisfacimento di alcun nostro bisogno. La finanza può dunque sembrare un costrutto artificiale e inutile, imposto da persone e istituzioni che ne traggono un indebito e grande vantaggio. In verità, è evidente che la finanza, se funziona bene, soddisfi un ruolo essenziale nel sistema economico, e cioè quello di selezionare i progetti imprenditoriali e, più in generale, la produzione, finanziando le attività con più elevata probabilità di successo: anche se non in modo direttamente visibile, perché la finanza opera dietro le quinte, essa è legata a doppio filo al mondo della produzione e del commercio.
Le poco amate banche
In secondo luogo, nelle attività di produzione e commercio, è immediatamente chiaro che ci siano stati costi. Ci sembra perciò giusto pagarli. Per esempio, se un contadino vende al mercato i peperoni coltivati nel suo terreno, capiamo che, se li acquistiamo, è ragionevole pagarli, per remunerare la fatica del contadino e per i costi che ha dovuto sostenere per la produzione, e magari ci fa persino piacere farlo. Ci fa invece meno piacere che venga remunerata una banca per un prestito che ha concesso, o per un investimento azionario. A pensarci bene, anche la banca d’investimento sostiene dei costi diretti, ad esempio per remunerare i qualificati analisti che valutano le opportunità di investimento, ma – di nuovo – sono costi sostenuti dietro le quinte, che facciamo più fatica ad immaginare.
Intendiamoci: anche la finanza, come del resto ogni settore economico, non è esente da “colpe”: il suo funzionamento, non diversamente dalla gran parte delle attività umane, non replica il modello ideale a cui vorremmo che si ispirasse. Ma, nonostante tutti i suoi limiti, la finanza è essenziale per la crescita e lo sviluppo economico, e la sfiducia che l’opinione pubblica nutre nei suoi confronti può essere un grosso problema. In democrazia, infatti, i politici rispondono agli elettori: con un’opinione pubblica avversa, il rischio che prima o poi arrivino decisioni contro la finanza, che ne ostacolano le possibilità di un funzionamento efficace, è elevato, con potenziali effetti pesanti sullo sviluppo.
Il criterio di Aristotele
Per migliorare la predisposizione dell’opinione pubblica nei confronti della finanza, è necessario far capire che la finanza genera valore per la collettività: in altri termini, che è qualcosa che ci serve. Questo, d’altronde, era anche il criterio che, secondo Aristotele, giustificava la moralità della finanza stessa, come di qualsiasi attività economica. La generazione di valore è particolarmente evidente in quella che viene definita, con termine un po’ abusato, finanza “sostenibile”, o finanza di impatto. Una delle importanti iniziative in quest’ambito è la Borsa dell’Impatto Sociale avviata da Torino Social Impact, volta alla creazione di un mercato di capitali dedicato a imprese che realizzano attività caratterizzate da un impatto sociale misurabile particolarmente elevato, e che non riuscirebbero altrimenti a reperire i finanziamenti necessari. Il criterio dell’impatto sociale è certamente bello e condivisibile: tutti noi (o almeno molti di noi) vorremmo vivere all’interno di un sistema economico nel quale le imprese non cercano solo il profitto, ma si propongono di massimizzare il valore complessivo creato. Proprio per questo, la finanza d’impatto, se ben pubblicizzata, può migliorare la reputazione dei mercati finanziari.
A chi spetta il ruolo cruciale
Tuttavia, la finanza di impatto, che richiede risorse esterne, rappresenta necessariamente soltanto una nicchia. Non dobbiamo quindi dimenticare il ruolo ancor più cruciale (per la sua dimensione comparativamente molto maggiore) della finanza tradizionale, che si basa sul rendimento atteso e sul profitto. Forse paradossalmente, la finanza tradizionale è essenziale anche per la finanza di impatto: infatti, senza un’economia in forma, con mercati finanziari che funzionano bene, mancano le risorse per la finanza di impatto.
Se ci preoccupa che la finanza tradizionale ricerchi il profitto e non il valore, possiamo pensare che, per fortuna, in molti casi profitto e valore si sovrappongono, almeno parzialmente. Una piattaforma di e-commerce che consente ai piccoli produttori, ad esempio di gioielli, di vendere i propri prodotti, cerca il profitto, ma nel frattempo crea valore anche per i piccoli produttori, che altrimenti non vedrebbero sbocchi per i propri prodotti, nonché per i consumatori finali, che in caso contrario non avrebbero mai saputo dell’esistenza di tali prodotti. Il finanziatore di questa piattaforma, così come di moltissime altre attività economiche, sta generando un impatto positivo sulla società.
Il ruolo della concorrenza
Purtroppo, come sappiamo, non è sempre così. Ad esempio, in mercati non concorrenziali il profitto deriva dalla mancanza di concorrenza e dunque da una posizione di rendita da parte delle imprese coinvolte. In questo caso, il profitto non equivale al valore, e i finanziatori di tali attività non stanno generando valore per la società. Il potere di mercato non è l’unica distorsione, che fa sì che il profitto sia slegato al valore: fra le altre, spiccano le esternalità e l’orientamento al breve periodo, che meriterebbero un’analisi approfondita, ma sulle quali non ci dilungheremo nel presente articolo. In questi casi, in cui profitto e valore non si sovrappongono neanche parzialmente, è opportuno agire sulle cause sottostanti (ad esempio, la mancanza di concorrenza) piuttosto che non biasimare la finanza.
Insomma, migliorare la predisposizione dell’opinione pubblica nei confronti della finanza passa certamente per lodevoli e eccellenti iniziative di finanza di impatto, ma anche per la comunicazione all’opinione pubblica del ruolo fondamentale di tutto il sistema finanziario, unita a politiche, come quelle in favore della concorrenza, che facciano sì che sempre più il profitto e il valore generato tendano a sovrapporsi, così da rendere più evidente il ruolo sociale anche della finanza tradizionale.
© Riproduzione riservata