L’Impact Economy è sotto attacco. «Dopo anni di dibattiti e azioni, è suonata la carica di una critica molto severa. Non è la critica di quanti dicono “Non serve”. È l’attacco di un pezzo ampio del capitalismo globale che non accetta alcun tipo di regola, indirizzo, correttivo a un turbo capitalismo finanziario che si è rivelato distruttivo».

Nel dibattito provocato da Mondo Economico sulle reali potenzialità di sviluppo dell’economia di impatto - aperto con una intervista al professor Mario Calderini - si inserisce oggi Giovanna Melandri, economista, due volte ministra, da dieci anni impegnata nell’Impact Investing. È fondatrice e presidente di Human Foundation, centro di ricerca che promuove l’economia e la finanza di impatto; fondatrice e ambassador Gsg, Global Steering Group for Impact Investment, movimento che riunisce le principali organizzazioni mondiali di finanza Esg e Impact Investment attivo in 48 Paesi, ed è presidente del “nodo” italiano, Social Impact Agenda per l’Italia, associazione che raccoglie 25 organizzazioni tra investitor, imprese sociali, market builders e istituzioni filantropiche.

Per l’economista allieva di Federico Caffè, l’economia di impatto «è un sogno radicale, ma non utopico. Un sogno riformista. E comunque un movimento internazionale in crescita esponenziale con numeri che non sono una goccia nel mare». Numeri che ci dicono che i flussi di capitali che si possono classificare come ‘impact’ si fermano oggi poco sotto i 3 trilioni di dollari con un mercato Esg le cui masse finanziarie gestite arrivano a sfiorare i 50 trilioni di dollari. E l’obiettivo, rilanciato a Istanbul dal presidente uscente di Gsg, Ronald Cohen, è arrivare in pochi anni al 10% delle masse finanziarie globali investite in impact investment.

Perché proprio oggi è tempo di Impact Investing?

«Perché non c’è alternativa ai problemi immensi che dobbiamo gestire. La casa brucia e dobbiamo trovare modalità di produzione della ricchezza che generino valore invece di estrarlo. Valore a tutti i livelli: ambientale, energetico, sociale, di genere, di governance, di diritti. Dobbiamo impedire lo svuotamento delle democrazie liberali dei ceti medi produttivi che sono cuore e motore della struttura democratica. E invece, vediamo proprio in questi giorni cosa accade in Europa. La strategia di transizione ambientale e energetica si sta trasformando in un crinale politico. Mi riferisco alla forzatura, non riuscita, del Partito popolare europeo che ha spaccato il Parlamento e la “maggioranza Ursula”. L’obiettivo era rigettare la Legge sul ripristino della natura che fa parte del Green Deal per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 (la plenaria ha rigettato la richiesta il 12 luglio, ndr).

Com'è la situazione oltre Oceano?

«Non va meglio negli Stati Uniti. La Sec, Securities and Exchange Commission, l’ente vigilante sui mercati americani, ha emanato la prima regolamentazione. Ebbene, dieci Stati l’hanno contestata e hanno fatto ricorso. È chiaro che sono in atto ondate neo conservatrici, che si rifanno ancora al manifesto di Milton Friedman, e che stanno generando la prima vera contestazione alla finanza Esg e ancora più all’ecosistema impact. Lo ripeto: è suonata la carica contro chiunque chieda ai mercati finanziari di essere generativi di valore».

È la risposta del capitalismo che si sente attaccato…

«Voglio essere chiara: il capitalismo ha vinto nel mondo. E io dico, per fortuna. Ma il modello e l’approccio di economia di cui oggi abbiamo estremo bisogno è un altro. Stiamo sollecitando una vera rivoluzione dal punto di vista politico e regolamentativo. Ma da un punto di vista teorico non stiamo dicendo nulla di nuovo. Io sono allieva di Federico Caffè e già all’epoca studiavo l’economia del benessere. Teorie che cercavano di internalizzare nella misurazione della produzione del valore le esternalità negative e positive che ogni investimento genera».

Qual è allora oggi la sfida che attende gli stakeholder dell’economia di impatto?

«La prima è contrastare culturalmente, e politicamente, quanti dicono “Lasciateci liberi”. Il fronte di opposizione che non vuole regole è ampio e, secondo me, ha una corrispondenza politica che si va facendo sempre più chiara. Almeno nel mondo sviluppato occidentale. Stiamo vedendo in azione un pezzo della destra. Ma non voglio essere fraintesa: io sono per lavorare pragmaticamente sugli strumenti della sostenibilità, dell’economia di impatto, ripulendo gli obiettivi da qualsiasi massimalismo ideologico. Non ci sono buoni e cattivi. Siamo in viaggio, dentro un processo. Ci viene chiesto di partecipare responsabilmente a una transizione necessaria per la salvezza del pianeta e del genere umano. E non esagero, è così».

Per fare questo la finanza Esg e l’economia di impatto devono però essere vere…

«Naturalmente. Va contrastato ogni fenomeno di washing. Va difesa e protetta l’integrità del concetto. Vanno identificate regole per definire un investimento Esg. È qui che si annida l’annacquamento di questa rivoluzione. C’è un passaggio decisivo su cui non possiamo sbagliare: accelerare sulla ricerca di nuovi modelli di valutazione e rendicontazione. Le emissioni inquinanti, i livelli salariali dignitosi, l’inclusione lavorativa dei migranti, la diversity nelle aziende, insieme ad altri fattori di impatto, oggi non sono ancora espressi attraverso dati monetari nei bilanci aziendali. Quando arriveremo a standard confrontabili e condivisi avremmo realizzato fino in fondo la rivoluzione impact».

Qual è il suo giudizio sull’azione dell’Europa?

«Credo che dovremmo ringraziare l’Europa nonostante qualche rigidità che anch’io riconosco. Dovremmo essere fieri dei passi che sta compiendo. Per esempio, la direttiva CSRD, Corporate Sustainability Report Directive, approvata a fine 2022 e in vigore dal 2025, che interessa in Europa quasi 50 mila aziende, è strategica. Impone la rendicontazione societaria di sostenibilità. È parte integrante degli strumenti che compongono la visione europea per l’attuazione del Green Deal e del Piano di azione sulla finanza sostenibile. Ed è sbagliato che le aziende la interpretino come un fardello, un vincolo, un peso. Difendo il fatto che l’Europa stia provando a fare della sostenibilità un fattore competitivo. Questo passaggio non va vissuto come una compliance obbligatoria ma come una grande opportunità da vendere anche sui mercati internazionali. Fondi e aziende a cui verrà presto applicato questo standard di rendicontazione avranno potenzialità enormi».

Lei è nata a New York. Ha la cittadinanza americana. Vede distinguo negli approcci di Stati Uniti e Europa a questo tema?

«Certo, si muovono su piani differenti. Credo bisognerebbe prendere il meglio dai due sistemi, contaminarli. Biden, per esempio, ha introdotto l’IRA, Inflaction Reduction Act, il più grande investimento pubblico della storia statunitense per la lotta al riscaldamento globale. È stato approvato nell’agosto 2022 per promuovere la produzione negli Stati Uniti di tecnologie per l’energia pulita. L’investimento si ferma poco sotto gli 800 miliardi di dollari. Ma contemporaneamente viene contestata la regolamentazione della Sec. L’Europa fa l’esatto contrario: definisce il quadro della regolamentazione ma è priva di politiche industriali comuni. Non abbiamo risorse sufficientemente forti e importanti per sostenere processi di transizione. Servono investimenti massicci e convergenza di partnership pubblico-privato. Gli Stati Uniti hanno fatto un patto che l’Europa, ancora divisa tra Stati nazionali, non riesce a fare».

E l’Italia come si colloca? Soprattutto dentro la cornice del Pnrr che andrebbe anch’esso misurato …

«Il Pnrr dovrebbe essere una grande occasione di apprendimento: capire se gli investimenti stanno generando valore nella direzione della sostenibilità ambientale, sociale e di governance. Ma il Governo non dà risposte, nemmeno lontanamente convincenti, su questo tema. La famiglia degli stakeholder dell’impact investment europeo, quindi non solo qui da noi, guarda con molta apprensione la posizione di forze politiche ancora molto lontane dal misurare un investimento pubblico o privato in termini di generatività. Temo si aprirà un campo di conflitto politico molto importante. Ma credo sia ancora possibile una correzione di metodo: il governo faccia il censimento dei 50 progetti più importanti per capire gli impatti generativi e sociali».

Qual è il bilancio dieci anni dopo la fondazione di Human Foundation?

«Positivo. Quando dieci anni fa parlavo di finanza di impatto, non mi capivano. Sembrava parlassi ostrogoto. Eravamo criticati da destra e sinistra. A sinistra, mi dicevano “Ma come? Porti la finanza mainstream nella dimensione sociale dove c’è solo finanza pubblica e no profit?” E certo! Perché il paradigma dell’Impact Investing è proprio quello di portare la dimensione sociale al cuore dell’impresa. A destra invece risultava inconcepibile che, oltre al rischio e al rendimento, ci fosse un terzo fattore, l’impatto. Sono contenta che questo argomento oggi sia diventato mainstream. Non lo avrei mai immaginato. Ma non significa che la rivoluzione del capitalismo generativo sia conclusa. Siamo dentro una lunga transizione. Lo scenario oggi è incoraggiante ma più complicato. La sfida è diventata globale».