Siamo come paralizzati dall'incertezza. L'invasione dell'Ucraina ha assestato un altro duro colpo alle ansie generate dal tempo della pandemia. Ma il panico non è un ingrediente adulto di vita, anche se colpisce ormai molti adulti. Certo, dobbiamo invocare la pace, gridarla anche. Ma non con il pacifismo dei buoni sentimenti, che non porta da nessuna parte. Perché bisogna fare i conti con la realtà.
La realtà ci dice che esistono gruppi o persone che vivono nella convinzione di dover portare avanti costi quel che costi valori che vengono messi pericolosamente in discussione dagli "altri", dagli antagonisti. Vale per Putin, per i terroristi, anche per i mafiosi. E, senza invadere il campo dei crimini di guerra o dei reati da codice penale, vale per l'integralista religioso, l'intransigente della politica, il tradizionalista cattolico che è anche no-vax, il "nimby" estremo. Una "prescrizione impossibile", rileva - spesso inascoltato - il pedagosita italiano Daniele Novara. Le belle poesie, peraltro sottoscrivibili anche dal peggior intransigente, non offrono risultati. E creano ulteriore ansia.
La mappa delle relazioni
Bisognerebbe allora compiere un passo importante a più livelli: politico, sociale, educativo, economico. Assumere cioè la pace come conflitto, che consenta perciò di mantenere la "relazione" anche nella divergenza più forte. Una mappa difficile, ma non impossibile da tracciare, anche se scomoda: presume che un rapporto possa stare in piedi non soltanto nel comfort della simpatia, ma anche nella fatica della discordanza. È questo, da alcuni anni, un fronte poco conosciuto di una realistica educazione alla pace su cui ognuno di noi può dare un contributo, anche piccolo.
Una nuova alfabetizzazione
Viene chiamata, questa strada, "alfabetizzazione al conflitto". Perché è la consapevolezza che non per tutti i conflitti ci può essere una soluzione, ma ci può essere un modo diverso di gestirli, di viverli. Ecco, un problema da gestire, non una guerra da combattere. Mi pare che sia la svolta civica, laica, consapevole, su cui si dovrebbe ricostruire una pedagogia del bene comune. E, aggiungo, dovrebbe diventare un elemento portante di quella "sostenibilità" di cui tanto parliamo.
Prima che sia troppo tardi.
Infine, con lo stesso approccio, bisognerebbe affrontare la questione etica dell'industria militare, su cui Raffaele Corvino ha opportunamente richiamato l'altro giorno su Mondo Economico. Non è semplice parlare di "riconversione" degli armamenti. Ma bisognerebbe farlo, e con coraggio. Studiando ipotesi concrete, percorribili.
Anche qui, prima che sia troppo tardi.
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