Il faut cultiver notre jardin. Lo diceva Candide di Voltaire, al secolo il filosofo François-Marie Arouet: bisogna coltivare il nostro giardino. Nel senso dei nostri talenti da non nascondere, delle nostre ricchezze – fisiche e spirituali – da coltivare. Tutto il contrario del not in my backyard, non nel mio cortile, che ispira le azioni definite con il suo acronimo: Nimby. Sono atteggiamenti che vedo da sempre in antitesi, soprattutto con le lenti della convivenza civica: se c’è un’opera necessaria e la collettività decide in un senso, l’accetto in nome di un bene comune più alto. Tutto il resto è egoismo sociale, non democrazia.
Non significa rinunciare alle proprie idee, ci mancherebbe. O che quanti la pensano diversamente debbano essere calpestati. Eppure, interpreto così la travagliata vicenda della nuova linea ferroviaria ad alta capacità Torino-Lione. Una storia non civica. Ci si azzuffa da anni, con un’acrimonia che solo raramente è diventata dialogo. E con punte di contestazione che in Valle di Susa hanno raggiunto episodi di pura eversione per le tollerate infiltrazioni degli ambienti antagonisti. Il Pd, visto che si sta ricostruendo, dovrebbe compiere un serissimo esame di coscienza circa le sue gravi doppiezze sul punto. Insomma, scontri con polizia e carabinieri, proteste, manifestazioni continue fino alle clamorose piazze Si Tav delle “madamine” arancioni tra il 2018 e il 2019. Con migliaia di persone esasperate per i continui tafferugli e per la miopia sul futuro, una sorta di “marcia dei quarantamila” in favore delle infrastrutture.
I fatti di Venaus dell’8 dicembre 2005 – apice dello scontro con i manifestanti no Tav – restano un ricordo lontano, anche se ogni volta che si riaccende un tafferuglio l’incubo ritorna. Come contribuenti, non dimentichiamolo, noi continuiamo a pagare le spese dei danni degli assalti, nonché del presidio h24 delle Forze dell’Ordine sui cantieri italiani e delle scorte a uomini come Mario Virano, classe 1944, direttore generale di Telt. Pubblichiamo oggi una sua intervista con Pier Paolo Luciano. Come sempre, spiega molto bene le questioni in campo, compresa la strumentalizzatissima analisi costi-benefici su cui il primo Governo Conte – quello gialloverde con Matteo Salvini vicepremier – ci aveva deliziato nei primi mesi del 2019.
Amo la Valle di Susa, dove peraltro risiedo, e credo che vi siano molte persone serie e in buona fede che continuano ad animare il movimento no-Tav. Altre non sono affatto serie, vivono di falsità e fake-news, si lasciano strumentalizzare da alcuni ambienti accademici (dell’Università e del Politecnico di Torino in particolare) che di soppiatto producono contenuti per i siti antagonisti (frequentati sovente, come i centri sociali, da delinquenti comuni). Certo, tutto è iniziato – regnante Silvio Berlusconi – nei primi anni Duemila, con una comunicazione molto carente nei confronti della popolazione locale e delle amministrazioni sui progetti dell'opera.
Si poteva e si doveva fare meglio. Specie in un territorio come questo: Bardonecchia, nel 1995, è stato il primo Comune del nord Italia a venire sciolto per infiltrazioni mafiose (storicamente, essere un domicilio coatto dal secondo dopoguerra non ha giovato); e poi c’era pure il precedente dell’autostrada A32, completata nel 1994, con i suoi mostruosi piloni, che non è stata una passeggiata, anche se sono poi arrivate molte compensazioni.
Detto questo e detto anche che l’Italia è un Paese maledettamente complicato per la sua burocrazia e per la sua classe dirigente inadeguata, bisogna ora guardare lungo e cambiare registro. Matteo Salvini – di nuovo vicepremier nel governo Meloni e adesso ministro delle Infrastrutture – ha voluto firmare a metà dicembre una nota congiunta per la Commissione Ue con l’omologo francese Clément Beaune. Per i responsabili dei due dicasteri si è trattato di sottolineare l’importanza strategica dell’opera di collegamento in alta velocità tra Francia e Italia. È accaduto in occasione della 64esima riunione della Commissione intergovernativa (Cig) tra i due Paesi per il collegamento ferroviario Torino-Lione.
Benissimo, però ora si vada avanti come si deve. C’è la questione dei collegamenti tra l’imbocco della tratta internazionale – che sta costruendo Telt – e la rete ad alta velocità italiana e transalpina. Che per l’Italia – e per il Piemonte – significa ragionare con intelligenza sulla bassa Valle di Susa e la possibilità di creare migliori collegamenti ferroviari con la banlieue sul modello della Rer parigina. Il che, in ultima analisi, vuol dire guardare lungo anche sul turismo dei prossimi anni. Il Piemonte, in particolare, ma tutta Italia ne hanno un bisogno estremo. Come pure - ci ricorda il nostro Bruno Dalla Chiara, uno dei massimi esperti di economia e ingegneria dei trasporti - di riflessioni e investimenti sui carri (carri, non carrette) merci che è necessario far circolare su queste nuove tratte.
Insomma, cari no Tav, il faut cultiver notre jardin.
Post-scriptum. Continua a tormentarmi il rovello degli ambientalisti; non riesco a capire come mai non si sdraino al confine con la Francia, all’imbocco del tunnel autostradale a Bardonecchia, adesso che viene raddoppiata la canna e quindi – presumibilmente – ci saranno più camion e automobili in transito; così come non comprendo il bailamme a San Didero (in bassa Valle di Susa), dove verrà costruito un autoporto supergreen per trasferire dai Tir ai vagoni ferroviari container e merci internazionali (a Susa, dov’è attualmente, si costruirà invece la stazione ferroviaria internazionale passeggeri). Due pesi e due misure? O che altro? Forse che – sotto sotto – c’è qualcuno che tifa per il non sostenibile traffico su gomma?
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