Il presidente del Consiglio lo ha posto come uno degli obiettivi principali del progetto di riforma costituzionale: «Sarà la fine dei governi tecnici». Il capo del Governo uscirà dall’elezione diretta nella votazione popolare e, in caso di dimissioni, il Presidente della Repubblica potrò nominarne solo per una volta uno nuovo scelto comunque tra i parlamentari della stessa maggioranza.

Tutto resterà nel chiuso dei partiti. Il Capo dello Stato avrà le mani legate ed avrà l’obbligo di sciogliere le Camere dopo due designazioni che non riescano ad arrivare a fine mandato. Una prospettiva un po’ in contraddizione con l’esigenza di stabilità che sarebbe alla base del progetto.

Sbarrare la strada a governi tecnici, cioè guidati da esponenti non parlamentari, appare quindi soprattutto l’espressione della volontà di mantenere la gestione del potere sotto lo stretto controllo dei partiti.

Eppure, al di là degli schemi ideologici, la storia ci insegna che i governi tecnici sono stati particolarmente utili per superare momenti difficili per gli equilibri democratici e per la dimensione economica.

Sono passati trent’anni e vale la pena ricordare i mesi turbolenti che hanno accompagnato quel temporale sui partiti chiamato “Tangentopoli”, un temporale che ha costretto alle dimissioni Giuliano Amato dopo meno di un anno di Governo. Di fronte a partiti che perdevano di giorno in giorno legittimità per la pioggia di avvisi di garanzia e richieste di autorizzazioni a procedere si era arrivati a parlare di “Parlamento degli inquisiti”.

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Carlo Azeglio Ciampi e Lamberto Dini

Tornare alle urne sarebbe stato un azzardo, in un momento di tensioni anche finanziarie. Il Presidente Oscar Luigi Scalfaro chiamò allora la personalità più prestigiosa e apprezzata anche a livello internazionale: il Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, il primo non parlamentare ad arrivare a Palazzo Chigi. Ciampi ristabilì la fiducia nei mercati, ottenne un importante accordo con le parti sociali contro l’inflazione, avviò le privatizzazioni bancarie che portarono ossigeno alla casse dello Stato.

Dalle elezioni del ’94 uscì vittorioso Silvio Berlusconi, ma il suo governo durò poco per il ritiro dell’appoggio da parte della Lega di Umberto Bossi e Roberto Maroni. E fu subito governo tecnico, quello di Lamberto Dini, ministro del Tesoro uscente, ma proveniente dalla direzione generale della Banca d’Italia. Un governo integralmente tecnico senza esponenti politici e composto da docenti universitari, diplomatici, magistrati, prefetti e alti funzionari pubblici, un governo che si ricorda per una delle più incisive riforme delle pensioni con il passaggio graduale dal sistema di calcolo retributivo a quello contributivo.

Mario Monti

Devono passare quindici anni per ritrovare un altro governo tecnico, quello di Mario Monti, già commissario europeo. Era il novembre del 2011 con l’Italia sull’orlo di una bancarotta finanziaria, con lo spread a 575 punti e con un governo Berlusconi a cui ancora una volta venne meno la fiducia della Lega. Le riforme economiche varate da Monti, in particolare la riforma delle pensioni proposta da Elsa Fornero, nell’arco di poche settimane fecero uscire l’economia dalle sabbie mobili.

Mario Draghi

L’ultimo governo tecnico è stato quello di Mario Draghi, già governatore della Banca centrale europea, dopo le fallimentari esperienze dei governi giallo-verdi e giallo-rossi. Draghi ha ristabilito la fiducia dei mercati, ha attuato misure drastiche contro la pandemia con la nomina del gen. Figliuolo, ha rilanciato l’economia pur con la difficile esigenza di tenere sotto controllo l’ampia maggioranza parlamentare che lo sosteneva, una maggioranza a cui non partecipava solo il partito di Giorgia Meloni.

Esecutivo tecnico, non extra-parlamentare

Non bisogna dimenticare infatti che Governo tecnico non vuol dire Governo extra-parlamentare. Tutti, da Ciampi a Dini, da Monti a Draghi, hanno ottenuto la fiducia dei due rami del Parlamento come prevede la Costituzione e si sono dimessi quando questa fiducia è venuta a mancare. Certo, il Governo tecnico è la dimostrazione dell’incapacità dei partiti di affrontare una situazione difficile ed è una scelta che pone in primo piano la responsabilità del Presidente della Repubblica.

Ma è stata una fortuna che l’Italia abbia potuto contare su personalità di grande prestigio e autorevolezza anche al fuori della politica. Personalità che hanno sempre contributo a mantenere la democrazia negli ambiti che le sono propri, che non hanno mai avuto tentazioni autoritarie, che hanno sempre aperto la strada a un clima più sereno per gli appuntamenti elettorali.

Il futuro potrebbe presentare altri momenti di crisi. Non appare una bella scelta buttare a mare i salvagente.