“Crescita” è una parola magica. Una buona crescita crea posti di lavoro, produce ricchezza, aiuta a rendere sostenibile il debito pubblico. A parole la crescita economica è infatti una delle priorità più volte genericamente annunciate e formalmente ribadite dal Governo. La sfida non è facile: le ultime previsioni accreditano uno scenario di base con un prodotto interno lordo destinato ad aumentare quest’anno ben al sotto di quota 1% con una progressiva discesa dopo i primi mesi e quindi ora in una sostanziale stagnazione con l’unica consolazione nel fatto che la grande Germania non se la passa molto meglio. Il che aggiunge peraltro un problema dato che Berlino è il nostro primo partner commerciale.

Viviamo in uno scenario in cui si affollano i rischi: da quelli geopolitici, con l’estendersi delle crisi che si trasformano in guerre, a quelli economici, con la frammentazione dei rapporti commerciali in un mondo che si muove ancora con difficoltà nell’era della post-globalizzazione.

Ma allora in un contesto di stagnazione interna e di tensioni internazionali ci si può e ci si deve chiedere se le decisioni del Governo, sia sul fronte dell’allocazione delle (poche) risorse, sia sul fronte delle riforme strutturali, si muovano in una strategia reale di spinta ad una crescita che sarebbe essa stessa una risposta concreta alle esigenze del Paese. Come ha scritto Mario Deaglio (su La Stampa del 1° novembre 2023), «nella legge finanziaria, in faticosissima gestazione, non si trova quasi alcun provvedimento che sia specificamente indirizzato a garantire questa ripartenza ma solo un galleggiamento garantito da un ulteriore, sensibile indebitamento pubblico».

Ebbene, sotto questo profilo il bilancio appare particolarmente deludente.

Nella manovra ci sono, è vero, provvedimenti nobili e giusti come il taglio del cuneo fiscale e una poco più che simbolica riduzione dell’Irpef, così come ci sono bonus sparsi per ridurre le imposte sugli straordinari e per agevolare l’assunzione dei giovani e le donne.

Le misure su cui è discusso più a lungo tra le forze politiche non avevano praticamente nulla a che fare con la crescita.

La disputa sull’aliquota per gli affitti brevi è stata “semplicemente” lo scontro tra la lobby dei proprietari immobiliari e quella degli albergatori. Il tira e molla tra quota 104 e quota 103 per le pensioni rispondeva solo alla stessa voglia di visibilità della Lega salviniana che ha ispirato anche la riduzione del canone Rai. Mentre continuano ad essere in vigore interventi che esplicitamente bloccano la crescita e spingono il lavoro nero come il limite di 85mila euro per il regime forfettario delle partite Iva.

Il vero tema della crescita si è così disperso in mille rivoli.

Si è fatto ben poco per il capitale umano, la formazione, la possibilità di fornire ai giovani competenze e motivazione in un mondo del lavoro che ha ancora grandi opportunità. Come ha sottolineato nei giorni scorsi Giuseppe Russo su Mondo Economico «il miglioramento del capitale umano ha fatto la parte del leone negli ultimi dieci anni a determinare la crescita». Scuola, università, formazione continua: l’Italia ha in molti casi livelli di eccellenza, ma l’attenzione verso i giovani ha ancora molti passi da compiere come dimostrano le sempre deludenti statistiche internazionali. E per la scuola ci sono solo i soldi per i dovuti per gli aumenti previsti dai contratti di lavoro.

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Altrettanto importanti nella prospettiva della crescita sono gli investimenti in innovazione.

Su questo fronte l’attività del Governo è partita con il piede sbagliato con l’abolizione di quel ministero per l’innovazione tecnologica e transizione digitale (retrocesso a Dipartimento presso la Presidenza del Consiglio) che aveva iniziato a mettere in cantiere i provvedimenti necessari per ottenere i 40 miliardi che il Pnrr destina per questo obiettivo. Appare ora lontana la visione strategica e l’efficienza operativa che aveva contraddistinto tra il 2017 e il 2020 il piano Industria 4.0 che aveva dato una spinta decisiva all’innovazione digitale delle piccole e media imprese.

Un altro punto importante è quello della concorrenza.
In un libero mercato il confronto tra diversi operatori è essere uno stimolo fondamentale per sollecitare il confronto tra i protagonisti e garantire il migliore rapporto qualità/prezzo. Su questo fronte la navigazione è incerta, lenta e confusa. Non c’è bisogno di citare le ben note vicende dei taxi e delle concessioni balneari, che continuano a costituire esplicite posizioni di rendita, ma è quanto meno significativa l’eterna vicenda della liberalizzazione del mercato elettrico e del gas entrata nel labirinto dei rinvii, delle modifiche, degli annunci contrapposti. Tutti elementi che non contribuiscono certo allo sviluppo di politiche di investimento delle imprese del settore.
Ma c’è un elemento fondamentale che non si può creare per legge o per decreto.

Questo elemento è la fiducia, Un fattore che si può sostenere e sviluppare garantendo condizioni favorevoli non solo sul fronte economico, per spingere gli investimenti delle imprese, ma anche sul fronte sociale, per convincere le famiglie a sostenere la natalità. Non c’è una formula magica. E’ necessario costruire un tessuto di relazioni sociali che veda i cittadini protagonisti sostenendo, per esempio, il non profit e le imprese sociali.  E insieme creare condizioni di stabilità e certezza delle regole, così come attuare una delle missioni principali del Pnrr: modernizzare le procedure e snellire la burocrazia. Le cause civili in Italia durano ancora più di sette anni e le procedure di spesa dei Comuni hanno tempi biblici (come dimostrano i quindici anni che non stati sufficienti per realizzare le paratie anti-esondazione sul lungolago di Como).