Che paese, l'America. Il titolo di un bel libro di Frank McCourt può davvero riassumere il giudizio sugli Stati Uniti disegnato dagli ultimi dati economici. Soprattutto da quel Pil schizzato quasi al cinque per cento nel terzo trimestre (4,9% per la precisione) in un anno che nelle previsioni avrebbe dovuto fare i conti con una recessione. E poi i consumi che continuano a salire nonostante una stretta monetaria più forte di quella della Bce. Viene naturale immaginare un confronto tra le due sponde dell'Atlantico: l'America che marcia a ritmi alti e l'Europa inchiodata a una crescita dello zero virgola. Alberto Dal Poz, fondatore e amministratore della Co.Mec, un'industria specializzata nella meccanica di precisione alle porte di Torino ed ex numero di Federmeccanica, può essere l'interlocutore giusto per provare a spiegare le differenze. La sua azienda – che ha un centinaio di addetti, un fatturato di 18 milioni ed esporta il 75% della produzione - ha anche un ufficio tecnico-commerciale negli Usa, a Burlington, un centinaio di chilometri da Lansing la capitale del Michigan e poco meno di 200 da Detroit. «Un'area che per filiere e competenze ricorda molto il Piemonte: automotive, aerospazio, industria ferroviaria».

Ingegnere, come spiega la differenza tra i due motori?

«Guardi, la scorsa settimana sono venuti ad Alpignano alcuni imprenditori americani. Ho chiesto loro com'è che andassero così bene.  Loro stessi si aspettavano un 2023 nel segno di un soft landing se non di recessione per effetto degli aumenti dei tassi e l'inflazione alta. E invece sono riusciti a ribaltare le previsioni grazie alla sommatoria di effetti».

Quali?

«Innanzitutto la tenuta dei consumi. Gli americani continuano a spendere nonostante l'inflazione abbia colpito pure loro. Poi un sistema di incentivi – l'Ira (Inflacion reduction act) – per affrontare la transizione energetica che non è un helicopter money ma un vero meccanismo di sostegno mirato. Gli americani hanno preso consapevolezza della questione ambientale. E sanno anche che non sarà una trasformazione a impatto zero, ci saranno costi sociali, ma sono pronti ad affrontare lo sforzo. E l'Ira rappresenta un bel paracadute».

Meglio del Pnrr?

«Sono due strumenti diversi. L'inflation reduction act va direttamente ad aiutare le imprese.  Il Pnrr no. C'è diciamo cosi un intermediario pubblico che ha il compito di mettere a terra i progetti. E, senza voler sollevare critiche, non sempre c'è la competenza adeguata. Così la macchina rischia di incepparsi. E poi c'è differenza anche nel peso dell'investimento messo in campo. Di nuovo a favore dell'America rispetto al Next generation varato dalla Ue e che in Italia si realizza attraverso il Pnrr».

Il presidente Biden con il numero uno della Federal reserve Powell

Qual è il terzo fattore che ha contribuito a ribaltare il quadro americano?

«Il credito. In America non c'è paura di far debito. Proprio l'opposto di quel che accade da noi, come ben dimostra la frenata del 30% nell'erogazione dei mutui. Il fatto è che un crollo di queste proporzioni subito impatta sull'edilizia che con la manifattura è uno dei motori dell'economia italiana. Tornando all'America neanche le imprese hanno paura a indebitarsi. Nonostante il costo del denaro sia decisamente più alto rispetto all'Europa. Siamo a tassi dell'11-12%. Ma possono contare su molti più strumenti rispetto a noi per trovare le risorse di cui hanno bisogno per crescere o per consolidarsi. Da noi l'80 per cento delle imprese ha un interlocutore obbligato più che privilegiato: la banca».

L'Europa paga la politica della Bce che ha come unico obiettivo tenere sotto controllo l'inflazione mentre la Fed si preoccupa anche di mantenere o favorire la crescita dell'occupazione?

«La verità è che nella Ue si rischia di morire di recessione più che di inflazione. Dov'è l'Ira europeo? Non lo vedo. Le banche fanno il loro mestiere, vincolano i prestiti ai paletti imposti dalla Bce. Ma avere credito è sempre più difficile. Per l'Italia si aggiunge un fattore Paese. Spiace dirlo, ma è così: scontiamo alcuni handicap, come la certezza del diritto».

C'è un buon clima, dunque, in America?

«Sì, soprattutto nelle aree più rurali, quelle che rappresentano l'America profonda. Poi a New York piuttosto che a San Francisco c'è stato un peggioramento, ma gli Usa non sono solo le grandi città. Anzi. Per questo l'America può proporsi come un'opportunità anche per le aziende europee. Il reshoring cosi come si era immaginato ai tempi del Covid sta prendendo un'altra forma. E in quest'ottica può essere un vantaggio andare a insediarsi negli States per effetto anche una diversa evoluzione della globalizzazione che si sta restringendo verso una collaborazione più marcata tra Paesi amici, che condividono una certa idea di democrazia e sviluppo. In quest'ottica gli States offrono anche alle imprese europee agevolazioni e grande sostegno».

Qual è invece una fonte di preoccupazione?

«Gli scioperi dell'Uaw, lo United automotive works, il sindacato più grande.  Che ha ottenuto anche il sostegno del presidente degli Stati Uniti, un inedito. Ma c'è preoccupazione non solo per gli aumenti richiesti anche se ci si chiede dove possa trovare Ford e, in prospettiva gli altri grandi produttori d'auto, le marginalità per concedere gli aumenti sottoscritti. L'altro il timore guarda alla protesta che monta, si allarga.  Contagia tutta la componentistica. E lo sciopero è visto come il nemico peggiore dalle aziende che hanno prospettive di crescita, sono pronte a introdurre sui mercati nuove tecnologie».