Ci sono momenti storici nei quali è difficile scorgere oltre l’orizzonte, tanto si è impegnati a fronteggiare le emergenze. Capita anche nella comunicazione economica. Siamo avvolti dall’incertezza che affligge le ragioni di scambio europee, a causa delle crisi energetiche potenziali e siamo interessati a vedere come fare a mettere insieme i cocci di una ripresa che sembrava bene avviata, dopo la pandemia, ma in fin dei conti è tornata allo zero virgola in tutta Europa, sostanzialmente piegata dall’inevitabile azione della Bce a rialzare i tassi per smorzare l’inflazione. Missione che non è ancora compiuta, visto che il tasso tendenziale della core inflation, ossia non quella esterna bensì quella che viene rimbalzata internamente è ancora del 4,1% negli Usa, del 4,5% nell’Eurozona e del 4,6% in Italia.

Che cosa bolle in pentola

Per vedere che cosa bolle in pentola e allungare lo sguardo si possono allora guardare le comunicazioni della Commissione europea. Le comunicazioni sono atti che indicano l’esistenza di una riflessione in corso, e possono preludere a direttive e regolamenti, ossia atti vincolanti. A marzo del 2023 la Commissione ha inviato agli altri organi, ossia al Parlamento, al Consiglio, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni una lunga comunicazione sulla competitività, traguardando il 2030 come obiettivo temporale della riflessione.

La esponiamo su Mondo Economico, in un articolo di sintesi:

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Il tema è sovrastato dagli eventi in corso, ma è sicuramente in agenda della Commissione, tanto che la presidente Urusla von der Leyen ha chiesto a Mario Draghi di riportare sullo stesso tema più o meno entro la prossima primavera.

La questione che scotta è che il ritorno alla crescita dello zero virgola (+0,8% quella dell’Eurozona) non è comune a tutti i paesi sviluppati. Il Giappone si è rialzato e vede il Pil crescere dell’1,2 per cento, che pare molto in relazione alla sua inclinazione storica a non crescere più. Gli Stati Uniti viaggiano al 2,1 per cento, di sicuro aiutati dal deficit pubblico (5,7% del Pil). Ma c’è probabilmente dell’altro.

Per rimediare alla recessione pandemica, le istituzioni europee hanno messo in campo politiche monetarie e fiscali espansive, in chiave “anticiclica”, che hanno avuto successo. Dopo quella esperienza andata bene, c’è stato il seguito di Next Generation Eu (in Italia Pnrr), che è invece il tentativo di spingere la crescita con una spesa pubblica “prociclica”, ossia aggiungendo domanda pubblica mentre l’economia ha già una domanda che cresce e il Pil che sale.

Il fattore economia aperta

La base teorica di questa politica sta nella tendenza delle economie mature a stabilizzare un tasso di risparmio sempre superiore all’investimento e a rinunciare a un aumento del Pil potenziale. Se questo fosse vero, l’investimento pubblico potrebbe rimediarvi, ma come finanziarlo? E qui avviene il duro scontro con la realtà. In una economia chiusa e con risorse inutilizzate, l’investimento pubblico in deficit, anche prociclico, aumenterebbe il Pil potenziale e si autofinanzierebbe completamente ex-post con il gettito fiscale sull’aumento del Pil. Ma in una economia aperta lo stesso investimento si disperde, e parecchio, quindi il rientro fiscale non è 1 a 1, aumentando così il debito pubblico o richiedendo un aumento della pressione fiscale che finisce per mangiarsi la crescita o buona parte.

Un esempio della dispersione? Buona parte dei pannelli solari che saranno acquistati con il debito “buono” di NGEU non è prodotto nell’eurozona. In pratica, si possono fare calcoli ex ante dell’effetto fiscale dei piani di investimenti pubblici, e in generale non si arriva mai a superare un rientro fiscale del 50 per cento della maggiore spesa o del maggiore investimento. Nel caso delle costruzioni, pubbliche o private, che si tratti di fare un nuovo asilo-nido o dell’efficientamento energetico di una casa privata, si ha che in media il rientro fiscale è del 42%, ragione per cui il bonus che si autofinanzia non esiste (sono tutti superiori al 50% e dunque provocano più debito pubblico adesso e/o più tasse in futuro).

 

Per dirla tutta, esisterebbe una condizione quantitativa per far funzionare la spesa pubblica prociclica come motore di sviluppo. Sarebbe un moltiplicatore della spesa pubblica pari o superiore a 2. E questa è la ragione per cui la spesa di NGEU è accompagnata da pressanti richieste di riforme, che dovrebbero fare sì che l’asilo nido, per fare un esempio, permetta a genitori inattivi di offrirsi sul mercato del lavoro (la partecipazione femminile alla forza lavoro in Italia è del 70% contro l’85% nel nord dell’Europa).

Il moltiplicatore di 2 è un numero necessario, ma irrealistico alla luce degli studi sui moltiplicatori. Qui si vede uno studio della Banca d’Italia che li tratta, e purtroppo il range accreditato nel lungo termine è molto variabile e va da 0,7 a 1,5. A parte il fatto che a 2 non si arriva. Se 2, che è il numero che consentirebbe l’autofinanziamento della spesa pubblica prociclica, non esiste, alla fine come non ci sono né pasti gratis, neppure esistono aumenti di spesa pubblica prociclica che si autofinanzino, comunque non è neppure così facile stabilire ex ante come fare a collocarsi nella fascia alta della forchetta.

La produttività totale dei fattori

Possiamo solo immaginare che perché succeda occorra essere rapidi a spendere (cosa che non sta accadendo), senza inflazionare i mercati dove si cala la domanda (cosa che non sta accadendo) e lasciando come eredità o un aumento del Pil potenziale, ossia più capitale pubblico produttivo e ricco di esternalità produttive, e/o più capitale umano disponibile e/o un sistema legale e amministrativo pro-crescita. Siamo arrivati al punto. Ossia al fatto che per ridurre il gap di crescita, tra Europa e Stati Uniti, solo per fare un esempio, forzare la spesa pubblica si può fare, è costoso (poi si tratta di decidere quando e chi paga, ma qualcuno pagherà), ma solo a condizione di aumentare contestualmente la “produttività totale dei fattori”.

Sì, perché in più studi sulla dinamica della produttività del lavoro, emerge che ciò che ha rallentato la crescita della medesima e quindi del Pil potenziale è esattamente la produttività totale dei fattori. Per i non addetti ai lavori, senza spinta demografica, anzi in inverno demografico, la crescita del Pil può basarsi solo sull’aumento del capitale umano (via la partecipazione alla forza lavoro degli inattivi e via l’aumento dell’istruzione e anche dell’immigrazione), sull’investimento privato (perché i beni capitali nuovi sono migliori dei precedenti, o totalmente diversi e quindi più produttivi di valore), e infine sulla produttività totale dei fattori.

Fonte: Federal Reserve

 

Come si vede dalla figura qui sopra, che emerge da un recentissimo paper di luglio 2023 della Federal Reserve, la riduzione della produttività del lavoro dopo il 2007 ha toccato tutti i paesi sviluppati, ma nel Sud Europa in particolare la produttività totale dei fattori è stata negativa (in dinamica), neutralizzando in tutto o in parte quel poco di crescita che poteva essere determinata dagli investimenti privati e dal miglioramento del capitale umano.

A proposito di capitale umano, dalla figura sopra non sfuggirà a nessuno che il miglioramento del capitale umano abbia fatto la parte del leone negli ultimi dieci anni a determinare la crescita, pure anemica, accontentandosi tuttavia di retribuzioni reali e quote di valore aggiunto decisamente in declino, rispetto ai decenni passati. E’ una riflessione da fare, anche perché in un contesto di decrescita demografica prima o poi riemergerà la questione retributiva, che stiamo cercando di ridurre al tema del salario minimo, mentre il problema è l’inadeguatezza del salario medio, ciò che spinge i giovani laureati ad emigrare d’Italia, e che potrebbe spingerli prima o poi a emigrare dall’Europa, e questo finirebbe per far scendere il Pil potenziale europeo. Le parti sociali dovrebbero tenerne conto.

I 17 fattori chiave

Qualcuno a questo punto si chiederà cosa mai c’è nella produttività totale dei fattori. Ma qui ogni economista di buon senso sa che una risposta precisa non può essere data. Perché l’efficienza sistemica deriva non tanto dalla quantità di investimenti e spesa, ma dalla loro qualità. Anzi, si potrebbe dire che, dati gli investimenti come macroaggregato, la qualità che esprimono nel privato è il tasso di rendimento, la qualità che gli investimenti, pubblici e privati, esprimono inseriti nel complesso sistema economico è proprio la produttività totale dei fattori. Per questo, nella comunicazione della Commissione sulla competitività, si trova in appendice una lunga serie di ben 17 indicatori fondamentali della competitività.

Ciascuno di essi, dalla percentuale di Pmi che ha una preparazione digitale (il 69% attualmente, contro un obiettivo di 90%, mentre sull’Italia ci sono dati contrastanti, ma peggiori della media), alla percentuale di Ricerca e Sviluppo sul Pil (3% l’obiettivo, contro il 2,26% attualmente in Europa, e l’1,6% dell’Italia, che è dietro a Ungheria, Spagna e Portogallo), tutto quanto impatta sulla produttività totale dei fattori.

I governi europei dovrebbero far tesoro della Comunicazione della commissione, per interrogarsi se e quanto stanno facendo per raggiungere i target fissati per il 2030. Scorrendo gli indicatori si vede piuttosto bene che in tutti gli ambiti siamo indietro, l’Europa è indietro, mentre il 2030 è proprio dietro l’angolo. Per questo la presidente ha chiesto a Draghi una riflessione sul tema, perché spera che dal Rapporto emerga non solo lo stato deficitario delle politiche nazionali sulla competitività, ma pure meccanismi nuovi per vincolare gli Stati più arretrati a fare le riforme e le riconversioni della spesa pubblica che mancano. Quindi, aspettiamoci pure direttive e regolamenti prescrittivi, ovviamente dopo il rinnovo del Parlamento europeo, perché prima delle elezioni è difficile cambiare troppo le politiche, soprattutto nel senso della severità.

Le criticità dell'Italia

L’Italia finirà in un ipotetico elenco dei paesi da impattare di più, e non da impattare di meno, non fosse altro perché la dinamica della produttività totale dei fattori italiana è negativa ormai da oltre dieci anni. Il messaggio nella bottiglia gettato in acqua da Bruxelles a marzo tuttavia sembra non essere arrivato a Roma. La Nadef e il primo vero bilancio pubblico pluriennale del governo in carica – che dovrebbe avere un orizzonte davanti di una legislatura piena, dato il consenso ricevuto – mostrano che la manovra fiscale per il 2023 sarà espansiva e l’espansione (di poco conto, circa 24 miliardi) è frutto di nuovo indebitamento.

Per quanto i benefici siano concentrati sulle fasce di reddito individuale medio basse e quindi rimedino un poco alla distribuzione del reddito disponibile che è andata concentrandosi nei due ultimi decenni, questo è il principale beneficio che ci sentiamo di riconoscere. Per spingere davvero sulla competitività la spesa avrebbe dovuto essere ristrutturata, tagliando buona parte dei 128 miliardi di bonus e spese fiscali che invece per lo più sopravviveranno, fatta eccezione del super insostenibile 110, e destinando le risorse liberate a scuola, ricerca, infrastrutture e inclusione.

La questione insomma, non è chiusa, anzi è appena aperta e fare il pesce in barile serve a poco. Chi ha bisogno di crescere di più per rendere sostenibile il debito pubblico maggiore d’Europa è proprio il belpaese.