Gli Yankee hanno un modello che è un delicato castello di carte, basato sul dollaro forte, la finanza evoluta e le imprese tecnologiche pressoché libere da eccessivi vincoli di concorrenza e antitrust, la cui crescita attrae il risparmio di tutto il mondo. Questo dà loro il privilegio di consumare senza risparmiare, di importare senza esportare e di vendere i titoli di Stato al resto del mondo, ossia di vivere alle spalle degli altri. Così hanno conquistato il 50% del Pil del G7 (era il 25% prima del 2000) e il 70% della capitalizzazione delle borse mondiali (era il 50%).
Gli alti multipli borsistici del loro capitalismo, che ha magnetizzato il risparmio mondiale, servono a facilitare gli acquisti tra imprese e gli investimenti giganteschi sulle tecnologie di frontiera, diffondendo vantaggi di first comer (OpenAI, Nvdia) ed economie di scala gigantesche (Tesla Gigafactory). Le loro società tecnologiche occupano posizioni di privilegio in mercati globali (Msft). Tuttavia, la corsa dei consumi delle famiglie è rimasta il pilastro del Pil ed è stata permessa dal bilancio pubblico in deficit e dal super dollaro che ha contribuito a trasformare l’economia delle grandi imprese tradizionali in imprese di marketing che non producono più, ma comprano nel mondo e rivendono. Come Amazon.
Di qui la flessione della produzione industriale tradizionale. E il doppio deficit (pubblico e commerciale) che rappresenta però oggettivamente un problema: la politica economica dice che almeno uno va aggiustato.
Il deficit commerciale americano

Qui arriva la dottrina Trump, che pensa di partire dalla correzione di quello commerciale, a forza di dazi (vedi tabella). Per correggere il deficit commerciale il piano è bloccare le importazioni con i dazi e incentivare la produzione interna con la svalutazione del dollaro, vincendo le resistenze di Jerome Powell prima della scadenza naturale del suo mandato alla Fed a maggio 2026. Posto che forzare i tassi al ribasso sia ammesso, proprio mentre i dazi spingono i prezzi interni, questa strategia è confezionata per sostituire i consumi di beni importati con prodotti interni (e può farlo), ma prima farà crescere i prezzi riducendo i consumi. Solo avendo pazienza si passerà alla fase 2. L’indebolimento del dollaro, che sta alla base del castello di carte, è tuttavia il vero punto debole della strategia. Se il dollaro passa da divisa di impiego globale a divisa di raccolta globale, i flussi di risparmio del resto del mondo che oggi permettono agli americani di consumare senza risparmiare - perché i flussi in entrata finanziano gli investimenti - cesseranno.
Gli americani per investire dovranno ripristinare un risparmio positivo e siccome quello delle aziende già lo è, le famiglie dovranno contrarre i consumi e il bilancio pubblico le spese. Insomma, la quadratura macroeconomica della dottrina Trump si trova con una economia americana dove Wall Street non è più il campione delle Borse, i capitali escono dall’America, le tasse crescono, i consumi crescono meno del Pil, la spesa pubblica deve essere ridotta per finanziare gli investimenti. Il che non è proprio musica per le orecchie degli elettori di Trump.
L’alternativa a bruciare il dollaro sarebbe probabilmente partire dalla correzione dell’altro deficit, quello pubblico. Il che potrebbe essere fatto non tanto riducendo le spese, poiché la spesa è largamente il frutto automatico di una distribuzione del reddito che è diventata più diseguale e che ha comportato l’aumento del welfare state, federale e locale, in moltissime essenziali forme. Bisognerebbe piuttosto aumentare le tasse su imprese e americani che possono permetterselo, e si potrebbe fare, salvando così il dollaro e tutto il delicato castello di carte del modello americano. Fino ad oggi quello di maggior successo, che ha ispirato anche noi europei, benchmark perfino del Piano Draghi. Nei prossimi mesi il modello sarà hackerato promettendo una età dell’oro.
Una manovra molto rischiosa, ai limiti di una scommessa, da parte di un Presidente che non a caso da imprenditore investiva nei Casinò.

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