Qualche settimana fa il premier Draghi, riflettendo sul fondo Sure destinato dall’Europa a finanziare le misure di compensazione della disoccupazione temporanea e che nel 2020 ha salvato momentaneamente l’occupazione di circa 30 milioni di posti di lavoro (l’Italia ha ricevuto 27 dei 100 miliardi messi in bilancio da Sure), ne auspicava una resa strutturale da parte dell’Unione.

La proposta è stata frettolosamente liquidata, in particolare da Mark Rutte, che ha invocato la temporaneità della misura e non è andata avanti.

La scorsa settimana il leader del Pd Enrico Letta ha lanciato la proposta di introdurre una tassa di successione sui maggiori patrimoni, per finanziare direttamente un assegno a beneficio dei diciottenni meno abbienti. A ben vedere, la fortuna immediata di questa seconda proposta non è andata meglio della prima.

Le due proposte redistributive

Molti ne hanno sottolineato limiti e fattibilità e lo stesso Draghi ha considerato che il metodo per lanciare cambiamenti del quadro fiscale sia la riforma fiscale che dovrà essere varata per adempiere alle condizionalità del PNRR. In realtà, le due proposte si possono accomunare per essere l’una e l’altra delle proposte redistributive. La prima, quella su Sure, redistribuirebbe il costo del rischio di shock asimmetrici del Pil nei paesi dell’Unione, contribuendo a livellare la congiuntura, e giova dire che sarebbe uno strumento che, come Draghi ben sa, contribuirebbe a rendere più solida e non più precaria l’Unione Monetaria, che difetta per l’appunto di meccanismi fiscali di stabilizzazione automatica del Pil e dell’occupazione tra le diverse zone geografiche. Con buona pace di Mark Rutte, gli organismi della Ue riflettono da anni sul tema.

I costi della non Europa

Nel 2014 una “assicurazione comune all’Eurozona contro la disoccupazione” è stato il tema dedicato del rapporto sui “Costi della non Europa” realizzato dal servizio studi del Parlamento Europeo. La proposta di Enrico Letta è anche essa di redistribuzione e mette il dito nella piaga di quanto è accaduto nell’ultimo decennio. La distribuzione del reddito e della ricchezza sono generalmente peggiorati, ossia essi si sono concentrati e le politiche monetarie che sono state realizzate per contrastare la grande contrazione del 2009 e la pandemia del 2020, sostanziate in un enorme aumento della liquidità, hanno ampliato le distanze, perché sono stati i possessori di portafogli finanziari, ossia tipicamente non i giovani, a ricevere i maggiori benefici. Per contro, i giovani sono stati penalizzati dal fatto che due crisi in poco più di un decennio hanno di fatto bloccato gli accessi al mercato del lavoro e le occupazioni per i nuovi arrivati sono state più precarie e peggio pagate che in passato.

Si potrebbe dire che entrambe le proposte sono state fatte forse nel momento sbagliato. O, forse, sono state messe in agenda frettolosamente, ma difficilmente si potrebbe sostenere che siano entrambe fuori luogo.

Entrambe, piuttosto, hanno centrato un paio di temi. Il primo è che la missione degli Stati (e anche dell’Unione Europea, se vuole diventare più di un condominio di Stati) è anche quella di redistribuire, perché gli Stati e gli individui non sono tutti ugualmente solidi di fronte a rischi come quelli di natura macroeconomica.

La disoccupazione da pandemia, il cui costo è stato redistribuito da Sure, così come la disoccupazione o sottoccupazione da mancata crescita che accade ai giovani (per il momento quasi priva di strumenti di compensazione, salvo il reddito di cittadinanza) si assomigliano terribilmente, perché sono situazioni che i singoli Stati e i singoli giovani non riescono ad affrontare, con tutta la volontà, da soli né con gli stessi mezzi. Attingere, pertanto, alle risorse collettive sembrerebbe razionale e produrrebbe un vantaggio non solo per i beneficiari delle misure, ma per tutto il sistema. Liquidare la proposta sulla dote ai giovani troppo rapidamente sarebbe pertanto un errore.

Piuttosto, varrebbe la pena rifletterci.

La provvista per adottare misure di welfare nei confronti dei giovani non dovrebbe essere una tassa sui patrimoni, ma la fiscalità generale.

La tassazione dei patrimoni in successione potrebbe essere oggetto di revisione nell’ambito della riforma fiscale, ma bisognerebbe in proposito tenere i piedi per terra. Più i patrimoni sono cospicui, più esistono da decenni i mezzi legali per ottimizzare, anche fiscalmente, i passaggi generazionali. Far scappare i grandi patrimoni dal perimetro nazionale potrebbe essere un’idea sbagliata e autolesiva. L’Italia ha bisogno piuttosto che i patrimoni dei suoi ricchi vengano reinvestiti e non solo in forme finanziarie, come accade da anni e questa dovrebbe essere una missione da dare al sistema fiscale da rinnovare. Anche sulla dote si potrebbe discutere. Una “somma fissa” può essere gratificante, ma difficilmente rimedia ai due problemi che incontrano i giovani: una scuola migliorabile, più legata al lavoro e politiche attive di inserimento del lavoro prevalentemente inesistenti.

I dati dell'OCSE

Prendiamo i dati dell’OCSE, quelli usati per costruire il Better Life Index. In Germania l’87 per cento degli adulti è andato a scuola fino a conseguire almeno un titolo di scuola secondaria di secondo grado, in Italia il 61 per cento; in Germania prima di entrare sul mercato del lavoro si studia in media 18,1 anni, in Italia 16,6 (e una quota intorno al 20 per cento dei diplomati ha conoscenze inferiori a quelle del titolo di studio o professionale che consegue); in Germania l’indice di apprendimento dell’Indagine Pisa è 508, in Italia 485 e con una dispersione assai maggiore, il che significa che una quota dei nostri giovani non è competitiva sul mercato del lavoro già al termine della formazione, ossia quando le competenze, almeno quelle teoriche, dovrebbero essere al massimo.

Per concludere, il sistema di ricerca di un lavoro che passa attraverso le politiche dei centri per l’impiego colloca l’1,7 per cento delle persone che vi si rivolgono. La dote forse non serve, ma un sistema fiscale che riconosca il valore dei capitali investiti nell’economia reale (ad oggi, le aliquote più basse della tassazione finanziaria sono riconosciute a chi investe nel pacioso debito pubblico) e un modello di istruzione, formazione e collocamento dei giovani decisamente più efficace sono una urgente necessità.

Ci auguriamo che l’esecuzione del PNRR ne tenga conto, anche con scelte coraggiose e di rottura con il passato.