Il 12 giugno poco meno di nove milioni di elettori saranno chiamati al voto per il rinnovo delle rispettive amministrazioni locali. Quello stesso giorno, tutti gli elettori italiani (compresi quelli residenti all’estero) sono anche chiamati al voto su cinque quesiti referendari in materia di giustizia.
I temi sui quali il referendum si svolge sono cinque:
- Modalità di elezione dei membri togati al Consiglio Superiore della Magistratura
- Votazione all’interno dei Consigli Giudiziari sui giudizi di professionalità
- Separazione delle funzioni tra Giudici e Pubblici Ministeri
- Limitazione della custodia cautelare
- Abrogazione della Legge Severino
La presunzione di non colpevolezza
Gli ultimi due quesiti hanno in comune la volontà dei promotori del referendum di rafforzare la presunzione di non colpevolezza (art. 27 della Costituzione). Mirano a farlo intervenendo, in un caso, mediante la limitazione delle situazioni in cui può esser disposta la custodia cautelare, e in particolare quando tale misura viene disposta a fronte del rischio di reiterazione del reato. Si tratta, in concreto, di una valutazione in merito alle probabilità che il soggetto indagato possa compiere un nuovo reato.
Dovrebbe essere evidente, però, come tale previsione si ponga in evidente contrasto con la presunzione di non colpevolezza (presunzione che può esser vinta, secondo il testo della Costituzione, solo in caso di condanna definitiva).
Nell’altro caso, la abrogazione della Legge Severino viene richiesta per superare il meccanismo automatico oggi vigente che impone l’incandidabilità, la decadenza e la sospensione dalla carica parlamentare, governativa o di amministrazione locale, anche nei casi di condanne non ancora definitive. Tra l’altro, i soggetti maggiormente esposti a questo rischio sono proprio gli amministratori locali.
I «Giuliani Amati»
Si dice, e si è tristemente detto, che i quesiti riguardano ambiti molto specialistici e tecnici. Per usare l’infelice metafora di una nota comica televisiva, non si dovrebbe presumere che tutti gli elettori siano dei «Giuliani Amati» o che si balocchino nel tempo libero a sfogliare i manuali di diritto costituzionale.
Di fronte a una simile banalizzazione, la prima risposta sarebbe semplice: non si può presumere che gli elettori italiani siano fisici nucleari se vengono chiamati al voto sul nucleare, o che siano esperti di antitrust o economia della concorrenza per votare sull’affidamento dei servizi pubblici locali. E si potrebbe continuare.
I paradossi della democrazia
Si potrebbe (anzi: si dovrebbe) obiettare che poteva avere ragione Bobbio (ne «Il futuro della democrazia», 1984), quando analizzava uno dei paradossi della democrazia, rappresentato dalla crescente difficoltà, per l’elettore, di formarsi un giudizio motivato su politiche pubbliche che sono sempre più complesse. Ma che non si può del pari rivendicare, a torto o a ragione, il maggior ruolo della democrazia diretta, facilitata dal ricorso agli strumenti informatici, e rifiutarla a singhiozzo, sulla base di altre contingenti preferenze politiche.
Il che aprirebbe la discussione sia sul significato della democrazia indiretta (favorendo l’opinione di Popper per cui il voto non è mai una delega, bensì un giudizio) e sulla democrazia diretta, dovendosi in quest’ultimo caso, e una volta per tutte, prender atto che il referendum con quorum del 50% degli elettori, legato ad una visione rousseuiana della volontà generale, dovrebbe forse far spazio alla concezione che vuol favorire la partecipazione di chi si cura della cosa pubblica, abolendo, o riducendo il quorum, magari stabilendolo in funzione dell’effettiva partecipazione al voto.
La finzione di Rawls
La vera obiezione, quella forte e qualificante, nei referendum sulla presunzione di non colpevolezza è un’altra. Nella sua «Teoria della giustizia» (1971), John Rawls, riferendosi alla giustizia sociale, aveva proposto il ricorso a una finzione per poter individuare, in una società, quale fosse il livello socialmente accettabile di sperequazione. Proponeva, quindi, di assumere le decisioni in una posizione originaria, in cui ciascuno di noi non fosse consapevole di quale sarebbe stata poi la sua sorte in una data società. Per far questo suggeriva di ricorrere a una immagine: il velo di ignoranza. Dietro quel velo ciascuno di noi avrebbe probabilmente scelto un assetto sociale che massimizzasse le posizioni maggiormente svantaggiate.
La scelta preferibile
Ora, per chi viene chiamato ad esprime una propria opinione in materia di garanzie processuali e di sanzioni penali, il ricorso alla finzione del velo di ignoranza potrebbe essere di grande aiuto. Supponiamo di non sapere se la parte del giudizio che ci spetterà sarà quella dell’indagato o della vittima. Quale sarebbe la scelta preferibile? Un sistema che rafforzi la presunzione di non colpevolezza o quello che predilige gli indizi, le suggestioni, la pressione sociale e mediatica nel cercare un colpevole?
Qui non entra in gioco la convinzione di ciascuno di esser un soggetto rispettoso della legge. Anche perché, dopotutto, anche in materia di giustizia dovrebbe trovare pieno spazio quel che affermava Stuart Mill in ambito di libertà di espressione: «È strano che gli uomini riconoscono la validità degli argomenti a favore della libera discussione, ma si oppongono a che essi vengano “spinti all’estremo”: non vedendo che se le ragioni non sono buone per un caso estremo, non lo sono in alcun caso». Perché sono i casi estremi quelli che ci aiutano a meglio comprendere la portata dei principi.
I princìpi liberali
La cultura liberale, che poi è la cultura posta a fondamento dell’articolo 27 della Costituzione, deve esser consapevole che anche nella dialettica processuale l’individuo si trova di fronte ad un potere, e deve esser chiaro che la protezione dell’individuo passa necessariamente tramite la limitazione di quel potere, pena il rischio che questo diventi soverchiante, ingiusto.
Dovendo applicare questi principi al processo penale, la cultura illuminista aveva ben chiaro che «l’indagine preliminare è in genere la fonte di tutti gli errori giudiziari, perché è il momento in cui l’emozione è al massimo ed i pregiudizi prevalgono». Così Madame Devedjian definiva la regola generale dell’errore giudiziario nella sua corrispondenza con Voltaire ai tempi dell’allora famoso processo Calas.
Come orientarci?
È possibile, quindi, che l’elettore si possa figurare la finzione di Rawls per orientarsi? È possibile e sarebbe persino doveroso. E non così difficile, quindi, sarebbe comprendere la portata del principio di non colpevolezza.
Si obietta: ma resterebbero fuori reati a forte impatto sociale se si limitasse la custodia cautelare. Il che, tecnicamente non è vero perché i reati con maggiore allarme sociale non sarebbero colpiti dalla disciplina risultante dal referendum. E ancora, sempre sul fronte delle obiezioni: ma allora avremmo un parlamento, un consiglio regionale e via discorrendo, pieno di soggetti pregiudicati per reati contro la Pubblica Amministrazione. Nemmeno questo è tecnicamente vero, per il semplice fatto che anche senza la Legge Severino resterebbe nel nostro ordinamento la pena accessorie dall’interdizione dai pubblici uffici, o del divieto di contrarre con la Pubblica Amministrazione. Sanzioni che verrebbero rimesse, com'è giusto, alla valutazione del singolo giudice.
La posta in gioco
Ma in queste righe non conta tanto o solo come – o se - votare al referendum. È più importante comprendere che i temi proposti dal referendum sono relativi ad ambiti nei quali la vita di ciascuno è pienamente coinvolta, e che è possibile cogliere l’importanza di certi temi se solo si compie la non impraticabile opera di ragionare, in termini razionali e non emotivi, sulle conseguenze prime di certe scelte.
Dopotutto, la stessa cultura illuminista è sempre stata consapevole che è men che male agitarsi nel dubbio che il riposar nell’errore, per dirla col Verri citato da Manzoni, non a caso in un’opera dedicata ad un grave errore giudiziario.
Senza il velo rawlsiano, infatti, si rischia di restare soltanto con l’ignoranza.
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