Il piano demografico dell’UE è ben documentato, ma nonostante tutto lascia un senso di incompiutezza degli argomenti trattati. Non che manchi l’identificazione degli scenari più probabili e, purtroppo, realistici, della demografia europea. Correttamente, come si può leggere dal testo e dall'abstract preparato da noi di Mondo Economico, è identificato il problema principale. La popolazione europea declinerà sia in termini assoluti, sia in termini relativi e alla fine di questo secolo sarà solo più il 4 per cento della popolazione mondiale. Oggi approssimativamente vale ancora il 6%.
Le cause del calo sono ovviamente quelle della denatalità, di cui è responsabile il coefficiente di riproduzione, figlio, è il caso di dire, di tassi di fertilità femminile sempre inferiori a 2. A fronte di questo, la durata della vita si allungherà e l’Unione, un po’ come capita ad altri paesi come il Giappone e la Cina, dovrà affrontare la questione dell’anzianizzazione, ossia dell’aumento del peso percentuale delle coorti della terza età sulla popolazione complessiva, con tanto di aumento del quoziente di dipendenza della popolazione dalle coorti attive.
La mancanza di analisi
Fin qui tutto bene. Un po’ meno bene il fatto che lo scenario sia descritto senza interpretazioni. Ci siamo chiesti a che cosa potrebbe essere dovuto e abbiamo avuto il sospetto che possa trattarsi di un riflesso condizionato, volto a non urtare suscettibilità di élite politiche di paesi che sulla demografia hanno poche idee, non strutturate e poco provate dal punto di vista scientifico.
È così che dalla descrizione dei problemi il piano demografico dell’UE scivola nelle politiche per migliorare la condizione demografica, ma lo fa innovando proprio pochino e mettendo mano a una cassetta degli attrezzi che non solo pare impolverata, ma contiene a ben vedere strumenti contro i quali è difficile muovere qualunque osservazione.
Come non concordare che l’organizzazione della vita debba essere tale, in ogni paese, perché ciascuno, uomo o donna, possa avere sia una famiglia, sia una carriera? E come non concordare sul fatto che per alleviare i sistemi previdenziali dai pesi crescenti delle pensioni si debbano allungare le vite lavorative di ciascuno, sia bene inteso grazie a una istruzione continua? E come non essere d’accordo sul fatto che l’anzianizzazione, dopo tutto, produce anche una silver economy, che costa ma è anche un’opportunità perché svela mercato fino ad ora sottostimato?
Si potrebbe andare avanti, ma il punto è che il piano demografico appena licenziato (l’11 ottobre 2023) sottovaluta la portata economica della crisi demografica.
Un danno al Pil o alla competitività?
Un esempio? Si cita espressamente il fatto che la demografia a trazione lenta peggiora la competitività, che è un bel termine astratto. Noi avremmo preferito leggere che danneggia la traiettoria del Pil potenziale, perché con meno braccia, ma soprattutto meno cervelli, alla fine del secolo sarà ridotta non solo la percentuale di europei sul pianeta terra, ma anche il Pil di cui godranno. Si, perché se è assodato che gli europei passeranno dal 6 al 4 per cento della popolazione mondiale, al Pil andrà peggio.
Oggi il Pil europeo vale 16,6 trilioni di dollari su 100,6 di Pil mondiale: il 16 per cento. Ma con una traiettoria di crescita del fattore capitale umano negativa o al più nulla, quel 16 diventerà 8 o ancora meno, e siamo stati generosi nelle ipotesi sottese a questi calcoli. E questo è chiaramente uno scenario difficile da concepire, senza considerare che potrebbe avverarsi al prezzo di una o più crisi fiscali, o al prezzo di una riduzione sostanziale del welfare state europeo, ciò che da sempre contraddistingue il way of life del vecchio continente rispetto ad economie più competitive, ma anche molto meno protette. Abbiamo trovato, nel piano demografico dell’UE, la solita ricerca di rimedi alla denatalità che lasciano insoddisfatti chi, come noi, è abituato a ragionare sui numeri. Facendo di conto, non esistono evidenti statistiche che le politiche fiscali pro-natalità siano efficaci.
Piuttosto, è facile osservare che esiste una netta linea di demarcazione tra i paesi a maggiore e minore denatalità. La media europea è 1,53 figli per donna, ed è già abbastanza grave. Ma il problema diventa da grave a gravissimo nei 4 paesi latini dell’Unione: Italia (1,24), Spagna (1,19), Portogallo e Grecia (1,35), tutti con tassi di fertilità bassissimi, vicini a 1. Cosa cambia? Rispetto ai paesi nordici (Francia 1,83, Danimarca 1,68), i tassi di fertilità dei paesi latini non si possono realisticamente rimediare con politiche di immigrazione selettiva (che peraltro l’Unione non ha e non sono neppure citate nel suo piano).
L’Europa tagliata in due
Per dirla tutta, toccasse dire la nostra, noi saremmo dell’idea che gli immigrati in Europa bisognerebbe individuarli per tempo con Scuole superiori, tecniche e universitarie europee da fondare all’estero, che forniscano insieme ai giovani stranieri meritevoli sia i diplomi che i visti di soggiorno, con magari un pacchetto introduttivo per entrare nell’Unione da cittadino potenziale, attraverso un percorso accelerato.
Dunque l’Europa è tagliata in due, in paesi che potrebbero rimediare almeno parzialmente al gap demografico e paesi nei quali la crisi è così avanzata che non c’è altro da fare, se non considerare che l’invecchiamento e l’impoverimento potrebbero essere una prospettiva davvero realistica.
Non c’è neppure il tentativo di capire perché proprio i paesi latini, da sempre più inclini a mettere al centro i valori della famiglia, siano poi proprio quelli messi peggio, sia demograficamente parlando, sia economicamente: perché ogni bambino che non nasce è un produttore che non nasce ed è pure un contribuente che non nasce, proprio nel posto dove servirebbe che nascessero più contribuenti, per far fronte alla spesa previdenziale magnificata dalla crisi demografica. Un dubbio mai fugato è che parte della differenza risieda nella maggiore concentrazione generazionale della ricchezza e del reddito nei paesi latini, che privilegiano gli anziani, la qual cosa non si rimedia facilmente perché si tratta di redistribuire opportunità ex ante, e non solo reddito ex post. Cosa che peraltro riesce neppure non troppo bene proprio in questi paesi, perché oltre tutto sono quelli con i maggiori tax gap.
Le migrazioni interne
In tutto il piano resta poi sottotraccia quasi non menzionata la questione delle migrazioni interne e delle sue conseguenze. Nel 2023 1,4 milioni di persone europee sono migrate da uno Stato all’altro dell’Unione. Si tratta del 17 per cento in più del 2020. E possiamo tranquillamente pensare che questo valore crescerà perché in Usa da 4 o 8 volte maggiore, a seconda degli anni. Come fare? La questione diventa bollente se si pensa che queste migrazioni non sono casuali, ma la pressione va dai paesi latini verso gli altri, va dal sud verso il nord. Potenzialmente, la perdita cumulata di valore aggiunto, competenze e versamenti fiscali in paesi che sono già in deficit demografico non fa che rendere più complicata e al limite del quasi-impossibile la missione di affrontare la sfida demografica nei paesi latini, facendo perno sulle sole proprie risorse. Anzi, vogliamo essere chiari? Finora l’Unione europea è stata mossa dalla volontà di vedere convergere tutto o quasi al suo interno. Ma se le migrazioni interne impoveriranno i paesi latini e le migrazioni esterne non saranno scelte con il criterio con cui si sceglierebbero buoni investimenti, la conseguenza sarà che le economie non potranno convergere e che divergeranno.
Che cosa succederà?
Capiterà di necessità una di queste cose: aumenterà il rischio di crisi fiscale nei paesi latini e/o saranno ridotti i redditi e le prestazioni sociali nei paesi a demografia traballante (come l’Italia) oppure ancora si andrà verso un’Unione fiscale completa, come gli Stati Uniti, dove solo il governo di Washington può indebitarsi e può spendere per i programmi federali.
Chissà che l’imminenza delle elezioni europee non riesca a far nascere un dibattito in proposito, prima di venire costretti dai fatti a scelte difficili, inaspettate e impopolari.
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