Nelle democrazie le elezioni contano, per fortuna. Le conseguenze che ne discendono, tuttavia, dipendono non solo dai numeri – ossia dalle decisioni degli elettori – ma anche dalla “lettura” che di queste decisioni danno i leader politici la mattina dopo. Così è stato anche per le elezioni europee del 6-9 giugno, che pure hanno largamente confermato quello che i sondaggi anticipavano da molti mesi – e con maggior chiarezza ormai da qualche settimana.

Prima di guardare ai risultati, guardiamo però alla partecipazione, che rappresenta sempre un indicatore significativo. In sintesi, e a differenza del 2019, quando la partecipazione al voto era salita in maniera relativamente uniforme (8 punti in più nell’Unione rispetto al 2014, dal 42,6 al 50,6 per cento), questa volta la differenza sulla tornata precedente è minima (+0,3 per cento, per un valore di 50,9) ma con forti scostamenti, dal +15,9 dell’Ungheria al -28,3 della Lituania, con tutto quello che c’è in mezzo.

La partecipazione è cresciuta dello 0,3 per cento nell’Unione, ma con grandi differenze fra paesi

Elaborazione Mondo Economico

 

Una lettura univoca di un dato così frammentato è quasi impossibile. Una sola tendenza parrebbe – molto vagamente – emergere:

  • si è votato di più nei paesi che avevano o elezioni nazionali in concomitanza (elezioni locali in Ungheria, elezioni politiche in Belgio) o comunque governi nazionali in difficoltà o “non assestati” (Ungheria di nuovo, dove Fidesz, il partito del premier Victor Orbán, ha preso una batosta da un partito fondato poco prima delle elezioni, Portogallo e Paesi Bassi, dove si sono insediati da poco governi di destra/estrema destra, Francia e Germania, di cui parleremo più avanti);
  • si è votato di meno nei paesi con elezioni politiche o presidenziali relativamente recenti, ma dove i partiti di governo hanno più o meno confermato il loro consenso (Grecia, Spagna, Italia, Polonia, Lituania…).

A livello di composizione dei gruppi nell’Eurocamera, sono state confermate le previsioni della vigilia.

  • I tre partiti europeisti “storici” mantengono la maggioranza assoluta dei seggi, in crescita i Popolari (di gran lunga il gruppo più forte, con 188 seggi), in minima contrazione i Socialisti (secondi, con 135 seggi), in forte perdita i Liberali (terzi con 79 seggi, ma ne avevano 102): il totale fa 403 laddove la maggioranza è 361 (le diverse proiezioni alla vigilia del voto gliene davano da 384 a 406).
  • Gli altri grandi sconfitti sono i Verdi che perdono 18 seggi, mentre la Sinistra è stabile.
  • Crescono i due partiti di destra, ECR (Meloni e i polacchi di PIS) e ID (Marine Le Pen e Salvini, fra gli altri – Il gruppo sarebbe cresciuto ben di più se a fine maggio non fossero stati espulsi i tedeschi di AfD); al momento hanno rispettivamente 73 e 58 seggi.
  • Crescono anche fino a un totale di 97 seggi i partiti non affiliati ad alcun gruppo: ci sono fra questi gli ungheresi di Fidesz (10 seggi), i tedeschi di AfD (15 seggi), i 5stelle italiani (8 seggi); il numero si ridurrà nella misura in cui le delegazioni troveranno casa nei gruppi esistenti (molti a destra) o – più complicato – ne formeranno di nuovi.

Questo risultato, se letto accanto alla partecipazione non certo esaltante e al “vento di destra” che sicuramente spira in molti paesi europei, conferma la conclusione ricavabile dall’Eurobarometro dedicato alle elezioni, secondo cui la partecipazione al voto è in media più elevata fra gli elettori favorevoli all’Unione Europea.

Però, mentre nella composizione dell’Eurocamera gli spostamenti non sono affatto drammatici in termini di numeri, quel che è cambiato è l’equilibrio fra il “motore” dell’Europa – l’asse franco-tedesco, da sempre – e tutto il resto, potremmo dire la carrozzeria. Un motore più debole riuscirà a far muovere una macchina appesantita, con lo sterzo molto più duro, che avrà maggiore tendenza a incagliarsi o bloccarsi, e molta difficoltà a seguire una rotta predefinita? E qui veniamo al “dopo” elezioni, per ora non esattamente entusiasmante.

Francia, la République c’est moi

A proposito di reazioni del giorno dopo, il presidente francese Emmanuel Macron non si è concesso nemmeno la notte per riflettere. Come è noto, un’ora dopo la proclamazione dei risultati, che hanno visto il suo partito più che doppiato dal Rassemblement National di Marine Le Pen, ha sciolto il Parlamento e convocato nuove elezioni legislative per il 30 giugno e il 7 luglio. L’ipotesi di lavoro – meglio, la scommessa – sarebbe quella di suscitare una reazione “repubblicana” che porti, una volta ancora, i partiti di sinistra e centro a federarsi e/o fare accordi di desistenza, al fine di negare la maggioranza a Le Pen; in subordine, se l’estrema destra dovesse avere i numeri per formare un governo, “vaccinare” i francesi con tre anni di lepenismo sorvegliato da Macron medesimo in veste di Presidente, di modo che nel 2027, quando ci saranno di nuovo le presidenziali, siano pronti per tornare all’ovile (Macron avendo fatto due mandati non potrà candidarsi).

I numeri non giocano a favore della prima ipotesi. Il Presidente parrebbe contare su una crescita della partecipazione al voto nelle legislative, motivata dalla posta in gioco, ossia la possibilità che la destra estrema vada al governo: in realtà, i sondaggi rilevano da mesi la caduta del consenso per Macron e la crescita di quello per il RN (il risultato delle europee ricalca questo dato); inoltre, nel 2017 e nel 2022 la partecipazione al voto delle legislative è stata di 3 o 4 punti inferiore a quella di quest’anno alle europee (51,5). È bensì vero che il tentativo di Macron è proprio quello di “alzare la temperatura” delle legislative, che questa volta assumerebbero comunque un rilievo maggiore (normalmente, si tengono qualche settimana dopo l’elezione presidenziale e vengono “snobbate” dagli elettori: alle presidenziali, per confronto, la partecipazione nel 2017 e nel 2022 è stata fra il 71 e il 77 per cento). È assai probabile, però, che le legislative vengano invece vissute dai francesi come un voto sull’operato del Presidente, e sulla sua interpretazione della “République”: anche in questo caso la partecipazione crescerebbe, ma non a beneficio di Macron.

Infine, la Francia è da tempo, e visibilmente, il paese più scontento e sfiduciato d’Europa. I dati dell’Eurobarometro più recente (aprile-maggio 2024) lo confermano. Mostriamo qui un confronto fra i valori relativi alla fiducia nelle istituzioni europee e nazionali in Francia e in media europea, ma risultati molto simili si hanno se si guarda, per esempio, ai giudizi su prospettive economiche individuali e collettive, e, in verità, su qualsiasi altro tema.

Quanto sono sfiduciati i francesi

Percentuale degli intervistati che ha fiducia nell’Unione Europea, nel parlamento nazionale, nel governo nazionale; media UE e Francia; in verde, “tendo a fidarmi”, in viola “tendo a non fidarmi”, in nero “non so”; dati Eurobarometro

Quanto alla seconda ipotesi – il vaccino – è cinica, ma forse potrebbe pure funzionare. Solo, è improbabile che bastino tre anni. Per quel che ne sappiamo, in Gran Bretagna ce ne sono voluti otto (Brexit è del 2016, i Conservatori paiono destinati a perdere le elezioni del prossimo 4 luglio), in Polonia nove (Donald Tusk ha vinto le elezioni nello scorso autunno), in India dieci (una settimana fa Narendra Modi, pur riconfermato come premier, ha dovuto prendere atto della necessità  di formare un governo di coalizione, nonché della presenza di una opposizione competitiva), negli Stati Uniti quattro anni potrebbero non essere bastati (Donald Trump ha buone probabilità di essere rieletto a novembre).
Il rischio che corrono i francesi è che in risposta al “la République c’est moi” di Emmanuel Macron dicano no a Macron, ma anche alla République. E sarà stato proprio il Presidente ad averli costretti a una scelta insensata.

Germania, la strategia dell’opossum

Se Emmanuel Macron ha reagito alla sconfitta alzando il livello dello scontro, come si diceva a sinistra negli anni Settanta del secolo scorso, a cinque giorni dalle elezioni non si è ancora capito quali conclusioni ne abbia tratto l’altro grande sconfitto, il Cancelliere tedesco Olaf Scholz. Parrebbe quasi avere scelto la strategia dell’opossum, fingersi morto per ingannare i predatori.

Quando parlerà il Cancelliere Scholz?

 

Nel suo caso, tuttavia, i predatori non sono direttamente gli estremisti di AfD, che pure hanno preso più voti dei socialdemocratici (15,9 contro 13,9 per cento). Si tratta, piuttosto, dei suoi partner di coalizione, i Verdi sconfitti e i Liberali che hanno superato per un pelo la soglia di sbarramento, nonché evidentemente dei Popolari (CDU-CSU), che da soli pesano quasi quanto l’intera coalizione-semaforo del Cancelliere (30 contro 31 per cento).
Anche qui, si tratta di risultati che i sondaggi da mesi mostravano come probabili. Il Cancelliere, peraltro, ha almeno tre problemi.

  • Come tenere insieme la sua coalizione: la prima scadenza è la legge di bilancio per il 2025, tema su cui le richieste di spesa di Socialdemocratici e Verdi si scontrano con l’inflessibilità del ministro delle Finanze, il liberale Christian Lindner.
  • Come tenere insieme il suo paese: l’AfD è il partito di maggioranza relativa nella Germania dell’Est (vedi figura) e verosimilmente vincerà le elezioni previste nel prossimo autunno in Brandeburgo, Turingia e Sassonia.
Germania, il muro invisibile fra Est e Ovest

Elezioni europee 2024, partito di maggioranza relativa per Comune, fonte Tagesschau.de

  • Infine, come tenere insieme l’Unione Europea, avendo perso la maggioranza nel proprio paese e la solidità del partner francese, senza avere mai in realtà consolidato una capacità di leadership a livello comunitario.

Anche in Germania – il paese le cui regole costituzionali maggiormente tutelano la stabilità di governo, per ragioni storiche – si comincia a mormorare di possibili elezioni anticipate. Il Cancelliere, nel frattempo, tace.

Partito Popolare Europeo, la tentazione di approfittare della vittoria

Se c’è un gruppo politico che indiscutibilmente ha vinto queste elezioni sono i Popolari. E non solo perché hanno il gruppo parlamentare di gran lungo più numeroso. La loro forza vera, infatti, sta nell’avere più di tutti gli altri quello che tecnicamente gli scienziati politici chiamano “potere di coalizione”: la capacità di scegliersi gli alleati, su più fronti. I Popolari, infatti, possono confermare l’alleanza storica con Socialisti e Liberali, ma possono anche pensare di allargarla o diversificarla, dai Verdi alle forze di destra meno estreme. Sono realmente il pivot dell’Eurocamera, tanto più in quanto dietro ai Liberali non c’è più Macron e dietro ai Socialisti non c’è più un forte partito socialdemocratico tedesco.

Le dinamiche politiche tipiche delle assemblee parlamentari nazionali, pertanto, potrebbero forse in questa legislatura crescere di peso rispetto al gioco interstatuale, che si svolge soprattutto all’interno del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo, il decisore ultimo nell’Unione. Manfred Weber, Presidente del gruppo PPE dell’Eurocamera, si è affrettato a far sapere che su Von der Leyen non si discute e che alla Presidente (dunque, ai Popolari) deve andare anche il portafoglio agricoltura (da solo pesa per poco meno di metà del budget comunitario). Se alla presidenza Von der Leyen della Commissione si aggiungesse la conferma della presidenza di Roberta Metsola (maltese, anche lei popolare) all’Europarlamento, i Popolari farebbero bingo al primo colpo (la presidenza dell’Europarlamento per consuetudine cambia a metà mandato e finora a inizio legislatura è stata attribuita a un gruppo diverso da quello di riferimento del Presidente della Commissione).

Alzare la posta può essere in alcuni casi una tattica vincente. In questo caso, sembra però ingenerosa, diretta a indebolire da subito i partner storici, Socialisti e Liberali, approfittando fra l’altro del fatto che Macron (per sua scelta, è evidente) sarà relativamente fuori gioco, almeno fino alle elezioni. Una tattica, dunque, spregiudicata, nonché pericolosa, perché rischia di complicare ulteriormente la partita iniziale delle nomine, che invece l’Unione farebbe bene a chiudere in tempi brevi, e in maniera limpida. Senza trascurare il fatto che sarebbe opportuno, già al momento delle nomine, prefigurare la struttura di un consenso possibile sulle politiche future (che certamente saranno riviste rispetto al passato).

Sarà una partita lunga, e non a un tavolo di poker

Molti giovani – maschi, soprattutto – questa volta hanno votato a destra, in Germania (l’età per votare in questa occasione è stata abbassata a 16 anni), in Francia e altrove, sulla scia spesso di influencer di successo (è il caso, fra gli altri, del ventottenne Jordan Bardella, pupillo di Marine Le Pen, Presidente del RN e futuro possibile Presidente del consiglio francese e del cipriota Fidias Panagiotou, uno youtuber che non si era mai occupato di politica e candidandosi ha raccolto poco meno del 20 per cento del voto). È uno dei tanti strappi che queste elezioni lasciano da ricucire.

Nel frattempo, i problemi veri che preoccupano gli elettori sono rimasti tutti lì: la guerra sul Continente, la crisi climatica, la crescita stentata… Per affrontarli ci vorranno pazienza, immaginazione e coraggio. L’Unione e i suoi cittadini non hanno bisogno né di opossum né di giocatori di poker, ma di leader lungimiranti.

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