Forme di lavoro precario e/o part-time sono ormai ampiamente diffuse in molti paesi Europei. Questi tipi di contratti sono spesso associati a contesti di incertezza occupazionale e/o di sotto-occupazione, e la loro diffusione rappresenta quindi un indicatore utilizzato nel dibattito pubblico per misurare lo stato di salute del mercato del lavoro.

In Italia, oltre il 50% dei giovani dipendenti tra i 20 e 24 anni sono impiegati con un contratto a termine, mentre tra i lavoratori oltre i 50 anni di età la percentuale scende sotto la soglia del 10%. Sul fronte dell’occupazione part-time, circa il 10% dei lavoratori maschi e circa il 30% delle lavoratrici donne è abitualmente impiegato con un contratto di lavoro ad orario ridotto.

I numeri aggregati non forniscono però una chiara e diretta indicazione sulle reali opportunità di impiego offerte dal mercato del lavoro. Lavoratrici e lavoratori possono infatti liberamente preferire di essere impiegati con un contratto a termine e/o part-time. In altre parole, non tutte le persone sono alla ricerca di un impiego stabile e full-time.

Focalizzandoci inizialmente sul lavoro precario, i dati forniti da Istat permettono di misurare la percentuale di dipendenti che sono impiegati con un contratto a termine poiché non hanno trovato un lavoro stabile. Questa percentuale risulta essere circa il 50% (Figura 1). Un lavoratore a termine su due dichiara quindi di trovarsi in quella condizione per scelta o perché sta svolgendo un lavoro per sua natura temporaneo, e non per la mancanza di un’alternativa contrattuale stabile. Per esempio, tra i giovani dipendenti a termine sotto i 30 anni, circa il 25% di essi è impiegato con un contratto a tempo determinato perché sta svolgendo un periodo di prova o di apprendimento. Altri (circa il 20%) svolgono invece un lavoro stagionale o per sua natura occasionale.

Questi numeri forniscono una più chiara diapositiva del lavoro precario in Italia: nella metà dei casi, il contratto precario non è imposto al lavoratore in alternativa al contratto stabile, ma è legato a caratteristiche intrinseche del tipo di lavoro, o a necessità del lavoratore stesso.

Sul fronte del lavoro part-time, invece, circa l’85% dei lavoratori part-time maschi dichiara di non aver trovato un’alternativa di impiego a tempo pieno. La stessa percentuale scende al 60% per le lavoratrici donne. La Figura 2 si focalizza quindi sulle persone che hanno deciso di lavorare part-time e mostra i motivi che hanno portato lavoratrici e lavoratori a scegliere di lavorare ad orario ridotto. Tra le lavoratrici che dichiarano di aver scelto un part-time, oltre il 70% di esse ha dovuto farlo per motivi legati alla gestione dei figli o di altri familiari. Tra gli uomini che lavorano ad orario ridotto, invece, molti hanno scelto il part-time perché impegnati in attività di studio (18%), perché hanno un secondo lavoro (18%) o per problemi di salute (15%).

I numeri legati alla sotto-occupazione femminile meritano di essere rimarcati: il 60% delle donne è impiegata con un contratto part-time perché non ha trovato un’occupazione stabile. Benché questa percentuale sia più bassa che per gli uomini (85%), andando ad indagare le ragioni per le quali le donne impiegate con un contratto part-time abbiano scelto volontariamente la sotto-occupazione, si scopre come la maggior parte di esse abbia compiuto quella scelta per potersi prendere cura dei propri familiari.

Una larga parte della sotto-occupazione volontaria femminile è quindi ancora dovuta ad esigenze legate alla vita domestica. Oltre a chiari problemi di natura culturale, emerge potenzialmente anche un problema legato alla carenza di servizi alternativi. Tuttavia, i dati Istat misurano come circa il 90% delle donne che scelgono di lavorare part-time per motivi legati alla sfera domestica lo facciano perché preferiscono occuparsi personalmente della situazione familiare. Solo il 10% circa di esse lo fa perché ha riscontrato una carenza di servizi alternativi o perché il costo degli stessi risulta troppo elevato.