L’utilizzo dei contratti a tempo determinato ha conosciuto nel nostro Paese un aumento pressoché costante negli ultimi anni, in particolar modo per le fasce più giovani della forza lavoro. Considerando i lavoratori dipendenti tra i 15 e i 34 anni, la percentuale di coloro impiegati con un contratto a termine è salita da circa il 20 percento nel 2005 ad oltre il 35 percento nel 2022 (Figura 1).

Da un lato, i dipendenti impiegati con contratti a termine ricevono in media meno opportunità di formazione sul posto di lavoro, rispetto ai loro colleghi impiegati con contratti a tempo indeterminato. Questo minore accumulo di competenze sul posto di lavoro danneggia così anche le prospettive occupazionali future. Dall’altro lato, i contratti a termine precludono la possibilità di programmare spese o investimenti familiari, essendo caratterizzati da una forte incertezza occupazionale e da un accesso limitato a forme di credito bancario.

 

Sorge quindi spontaneo chiedersi se i lavoratori a termine siano compensati per gli effetti negativi legati alla loro condizione contrattuale, attraverso salari più alti rispetto ai lavoratori impiegati con contratti stabili. Al fine di misurare correttamente le differenze di reddito tra lavoratori occupati con diversi tipi di contratto occorre però confrontare individui il più possibile simili tra di loro. In caso contrario, le differenze di reddito potrebbero essere dovute ad altri fattori, che nulla hanno a che fare con la condizione contrattuale. Per esempio, la maggior parte dei contratti a termine si riscontra tra i giovani lavoratori, i quali essendo all’inizio della carriera lavorativa ricevono salari in media più bassi, indipendentemente dal tipo di contratto. La differenza salariale che emerge dal confronto tra lavoratori stabili e lavoratori a termine potrebbe quindi essere in parte dovuta a semplici differenze di età, e non al tipo di contratto. Tra gli altri fattori che potrebbero confondere l’analisi troviamo per esempio il genere e la regione geografica di residenza.

I numeri che vengono spesso citati nel dibattito pubblico non tengono in conto di questi aspetti, e sono quindi il risultato di un confronto che viene fatto tra persone molto diverse tra loro, non solo per il tipo di contratto con il quale sono impiegate. Utilizzando i dati Inps per il periodo che va dal 2005 al 2019 e distinguendo semplicemente tra lavoratori impiegati con diversi tipi di contratto, troviamo come in media i lavoratori a tempo indeterminato ricevano in effetti uno stipendio lordo più alto di circa il 37 percento rispetto ai loro colleghi impiegati con contratti a termine (il salario fa riferimento al reddito trimestrale). Come conferma il prospetto pubblicato qui sotto.

Fonte: INPS - Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato, novembre 2022

Confrontando però il salario di persone con le stesse caratteristiche demografiche – confrontando quindi giovani con giovani, per esempio – emerge come le differenze salariali siano meno marcate. In media, la differenza nel salario lordo tra un lavoratore impiegato con un contratto stabile e uno stesso identico lavoratore – per età, genere e regione geografica di residenza – impiegato con un contratto a termine è del 20 percento. 

Benché con le stesse caratteristiche demografiche, i lavoratori potrebbero però anche differire per il loro livello di produttività/abilità. Per misurare in modo corretto le differenze di reddito tra lavoratori stabili e lavoratori precari occorre quindi confrontare non solo lavoratori con le stesse caratteristiche demografiche, ma anche lavoratori con lo stesso identico livello di produttività. La misurazione effettuata in questo modo evidenza come i lavoratori a tempo determinato ricevano in media un salario più alto di circa il 30 percento, rispetto agli stessi identici lavoratori impiegati con un contratto a tempo indeterminato (maggiori dettagli sulla misurazione sono disponibili in questo studio). 

Misurando le differenze di reddito in maniera corretta, emerge quindi come in Italia i lavoratori a termine siano in media compensati per la maggiore incertezza legata alla loro condizione occupazionale. Questo risultato, da tenere in conto nel dibattito pubblico, non esaurisce la necessità di intervenire in maniera puntuale laddove le forme di contratto a termine siano impiegate dalle imprese in forma impropria, e cioè con il solo obiettivo di non investire sulla propria forza lavoro.