Ieri si è finalmente conosciuta la decisione della Federal Reserve (FED). Come abbiamo sostenuto non si aveva evidenza né a favore né contro il rialzo dei tassi. In altre parole, la decisione della FED non poteva essere guidata dall'evidenza dei dati.

 

 

 

Il comunicato della FED di ieri mostra come essa tema una correzione dei mercati non (solo) statunitensi: “Recent global economic and financial developments may restrain economic activity somewhat ...”. Questo è quanto scritto nel comunicato di settembre e ribadito nella conferenza stampa. In quello di giugno i problemi dell'economia globale non erano menzionati (e questa è la prima novità).

La previsione - offerta in forma di tabella – sugli Stati Uniti è quella di leggero miglior andamento del PIL statunitense nel 2015 rispetto alla previsione precedente, ma di un suo leggero peggior andamento negli anni successivi: alla fine, si ha un PIL che cresce intorno al 2%, con un'inflazione che tende al 2%. I tassi sono previsti in lento rialzo (e questa è la seconda novità) nel corso del tempo fino a raggiungere il 3% fra la fine del 2017 e l'inizio del 2018.

La decisione è stata quella di lasciare i tassi dove sono, quindi di fatto di sostenere i prezzi delle attività finanziarie negli Stati Uniti, intanto che i tassi nulli non mettono in difficoltà i paesi emergenti indebitati in dollari. Un rialzo dei tassi, infatti, alzerebbe il costo del debito che per di più è in una moneta che si rivaluta. Alla fine, il timore di una correzione dei prezzi delle attività finanziarie ha prevalso sul timore – anche perché non si hanno ancora segnali - di un riscaldamento dell'economia reale statunitense.

E' giustificato il timore della FED intorno all'andamento dei paesi in via di sviluppo? La vicenda cinese potrebbe avere un impatto negativo sull'economia. Il dibattito si è aperto e per ora prevale il punto di vista “pessimista”. In altre parole, non si trova chi pensi che la crisi cinese sia finita qui.

Lo schema del ragionamento “pessimista” lo si comprende partendo da tre evidenze: 1) l'economia cinese è in gran parte trainata dagli investimenti (industriali e in infrastrutture) finanziati con un debito copioso; 2) i succitati investimenti cinesi sono un terzo degli investimenti mondiali, ossia il flusso di investimento cinese è un terzo del flusso mondiale; 3) la Cina importa copiosamente materie prime per poter investire – si pensi solo al rame necessario per le infrastrutture.

Basta perciò che gli investimenti si contraggano che abbiamo: 1) una minor domanda di beni capitali prodotti dai paesi terzi; 2) una minor domanda di materie prime prodotte dai paesi terzi; 3) gli investimenti cinesi sono stati eccessivi e quindi vanno in parte cancellati, ciò che ha effetto sui crediti bancari.

Tralasciamo il terzo punto, quello dei crediti bancari cinesi verso le imprese cinesi e concentriamoci sui primi due, ossia sulla minor domanda di beni capitali e materie prime. Gli esportatori di beni capitali sono tedeschi, giapponesi, e coreani, mentre gli esportatori di materie prime sono i paesi petroliferi, quelli minerari, e quelli agricoli. I paesi che esportano materie prime finiscono perciò per avere degli introiti valutari ridotti, in genere in dollari, a fronte di un debito espresso in dollari. E via andando per i rami dell'economia reale e finanziaria.

Lo scheletro del ragionamento mostra in maniera plausibile come la crisi cinese possa avere ancora ripercussioni globali.

Le puntate precedenti:

http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/4194-il-prossimo-passaggio-cruciale.html

http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/4198-il-prossimo-passaggio-cruciale-ii-2.html