Il lavoro è in due parti. Nella prima abbiamo – dopo la premessa - raccolto in pochi grafici le informazioni che consentono di cogliere quello che - secondo noi - è il punto nel campo dell'economia detta reale. Trovate a seguire una digressione sul Meridione, ed una previsione politica. Nella seconda parte - non avendo nella prima fatto menzione dei problemi più noti, quelli legati al debito pubblico, alla crescita, eccetera – trovate un prontuario delle opzioni - secondo noi - sbagliate di politica economica.

 

1 - L'economia reale e la politica

 

1.1 – Una premessa e cinque grafici

Da un punto di vista “congiunturale” - con ciò intendendo quel che è accaduto negli ultimi mesi - il nuovo governo ha contribuito a peggiorare le cose, alimentando (in-intenzionalmente) le aspettative (negative) che si sono formate sul debito e la crescita. Le aspettative sono diventate negative, perché l'opinione che è prevalsa sui mercati – detta in due parole - è quella che afferma che il debito non scenderà molto in rapporto al PIL, dal momento che il governo ha preferito redistribuire la ricchezza piuttosto che puntare sugli investimenti per crescere. Un giudizio “congiunturale”, che è a sfavore del governo in carica, non è tuttavia sufficiente per chiudere il contenzioso. Si deve dibattere anche del giudizio detto “strutturale”:

In Italia, su sessanta milioni di abitanti solo 23 milioni lavorano. I disoccupati non sono poi molti – 3 milioni, mentre molti sono gli inattivi in età di lavoro – 13 milioni. Quindi i disoccupati e gli inoccupati sono circa nello stesso numero degli occupati. Quelli che lavorano sono quasi tutti occupati nelle imprese con al massimo dieci dipendenti. Le imprese italiane di piccola dimensione hanno una produttività inferiore a quelle delle imprese tedesche e francesi della stessa classe, mentre quelle di dimensione maggiore hanno una produttività eguale o maggiore. Dunque il punto non è l'”italianità incapace di fare industria” o “l”euro che ci ha rovinati”. I salari possono salire stabilmente – e quindi aiutare il finanziamento sia della spesa pubblica sia di quella pensionistica - solo se aumenta la scala delle imprese e quindi il valore aggiunto generato dalle stesse. Invece, come abbiamo visto, si continua a pensare che, in fondo, la redistribuzione del reddito esistente sia un'opzione valida per rilanciare la crescita.

Un risorto Ponzio Pilato darebbe la colpa del mal andamento congiunturale dell'economia al governo in carica, ma dividerebbe la colpa strutturale - ossia la debolezza di un'economia che continua ad essere polverizzata - fra tutti i governi degli ultimi decenni. O meglio, non darebbe la colpa solo ai politici, perché, da attento servitore dello stato, non li crede onnipotenti, ma la dividerebbe fra le molte classi dirigenti che si sono alternate nel governo del Bel Paese

Ecco i grafici: http://www.oecd.org/economy/surveys/Italy-2019-OECD-economic-survey-reviving-growth.pdf. I grafici li trovate in fondo alla nota.

Primo grafico. La produttività italiana è comparativamente molto modesta come media, ma attenzione alla varianza. Secondo grafico. Disaggregando per classi dimensionali, si vede che l'Italia ha delle imprese ad alta produttività, ed ecco la varianza. Terzo grafico. I giovani sono più poveri della media. Quarto grafico. I poveri in Italia sono meno protetti che da altre parti. Quinto grafico. Le donne non possono lavorare in gran numero per mancanza di asili. 

 

1.2 – I lati “politicamente scorretti” della Questione Meridionale

Il Meridione ha mutato spesso volto. Meglio, ha avuto diversi volti che sono mutati. Un volto era quello di essere un mercato maggiore per le esportazioni delle imprese del Nord. Un altro era quello di fornire manodopera ai tempi della industrializzazione accelerata del Nord. Questi due primi volti del Secondo Dopoguerra hanno da tempo esaurito la propulsione. Il Nord esporta in massima misura fuori dai confini nazionali, e la manodopera non qualificata proveniente da altre aree non è richiesta nella stessa misura. Altro volto era quello di bilanciare il pericolo social-comunista ai tempi della Guerra Fredda. Il Meridione votò, infatti, prima per la Monarchia e poi per le forze moderate. La Guerra Fredda non c'è più e il pericolo social-comunista non si vede dove oggi possa albergare. Volto finale – quest'ultimo esauritosi per effetto della guerra persa e quindi estintosi con la rinuncia ad essere la “più piccola delle grandi potenze” - era la funzione militare. Il Meridione popoloso serviva per fornire l'esercito di soldati, e per proiettarsi verso il mare nostrum.

Queste erano le ragioni dell'interesse per così dire “materiale” o “strumentale” o “non-patriottico” del Nord a perseguire una politica di “alleanza” con il Meridione. Queste ragioni materiali non ci sono più. Il Nord potrebbe rinunciare in maniera definitiva all'ambizione di essere la più piccola delle grandi potenze – una politica perseguita dall'Unità alla Seconda Guerra - e diventare come il Belgio, l'Olanda, l'Austria. Trasmutarsi, in breve, in un Paese dove la politica è dissolta nell'economia e dove il Paese è junior partner del Sacro Romano Impero.

Una digressione sui numeri. Come possiamo quantificare le numerose importanti funzioni svolte nel Secondo Dopoguerra dal Meridione. Quanto vale l'aver arginato i social-comunisti? Quanto vale l'aver alimentato il grande esodo dalla campagna alla città? L'unica quantificazione di cui disponiamo – pure di valore limitato - è relativa al debito pubblico. Esso si è formato in Meridione, laddove le spese dello stato sono state maggiori delle entrate che traevano origine localmente. Il bilancio pubblico – inteso come surplus primario - nel Nord-Ovest è stato in avanzo, nel Nord-Est è stato prima in deficit e poi in avanzo, nel Centro quasi sempre in pareggio. Nel Meridione si aveva un disavanzo spaventoso che negli ultimi anni va riducendosi pur restando molto elevato.

 

1.3 – Gli sbocchi a cavallo delle prossime elezioni

 Il rallentamento dell'economia – frutto per la parte “congiunturale” dell'azione del governo in carica, ma frutto di quanto non si è fatto negli ultimi decenni per la parte “strutturale” - spinge a rivedere le manovre in programma non solo per l'anno in corso, ma anche per quelli futuri. Il governo in carica soffre fin dalla nascita di un conflitto che trae origine dalla contrapposizione fra gli interessi del Settentrione (autonomia regionale, produzione, infrastrutture) e del Meridione (reddito di cittadinanza). Interessi che sarebbero (forse) componibili (solo) in presenza di una crescita economica significativa.

Al rallentamento economico si somma il risultato delle elezioni regionali. Le elezioni sia abruzzesi sia sarde hanno, infatti, mostrato una forte caduta dei consensi del M5S in regioni che – in astratto, poiché registrano un gran tasso di disoccupazione in presenza di economia debole per ragioni strutturali - sarebbero interessate al “reddito di cittadinanza”. Quelle sarde non hanno mostrato una crescita dei consensi della Lega, nonostante la gran perdita di voti del M5S. Abbiamo così il senior partner del governo indebolito, e il junior partner rafforzato, ma non come sarebbe potuto accadere con un travaso di voti.

Non si può perciò escludere che dopo le elezioni europee - in presenza di una ulteriore caduta dei consensi del M5S e di una ulteriore ascesa della Lega a danno sia dell'alleato di governo sia della coalizione di Centro-destra - si possa andare verso le elezioni politiche anticipate. Elezioni chieste dalla Lega come suggello della propria ascesa. Né si può escludere che l'esito elettorale - rotta la coalizione di governo - possa alimentare una spinta verso una doppia aggregazione – verso un nuovo “bipolarismo”: un Centro-destra a trazione Lega ed un Centro-sinistra a trazione M5S. Ossia un bipolarismo che vede i protagonisti del bipolarismo della Seconda Repubblica – il PD e FI - “risucchiati” dalle forze populiste ormai emerse ai loro lati.

Laddove, nel caso del nuovo Centro-destra, avremmo in campo economico una maggior attenzione alle necessità produttive a scapito di quelle distributive, ma entro una cornice in qualche misura “sovranista”. Laddove, nel caso del nuovo Centro-sinistra, il PD andrebbe alla ricerca della “costola di sinistra” presente in un M5S ormai indebolito per trovare un accordo che lo rimetta in gioco. Difficile che in questo secondo caso possa emergere in campo economico una maggior attenzione alle necessità produttive a scapito di quelle distributive, anche se si avrebbe una cornice meno “sovranista” di quella che si avrebbe nel primo caso.

 

2 – Sei opzioni sbagliate

 

2-1 – Gli altri che condividono il rischio?

L'idea è che gli altri stati dell'Euro-zona si accollino, almeno in parte, il debito del Bel Paese. Un'opzione improbabile, perché nelle aree a moneta unica che hanno già raggiunto l’unità politica - come gli Stati Uniti - questo non accade. La ragione della non condivisione da parte dello stato centrale dei debiti generati dei diversi stati è che si alimenterebbe la tentazione dei singoli stati di seguire una politica fiscale molto accomodante, i cui costi – ossia il debito pubblico che ne scaturisce - sarebbero condivisi anche da chi è stato “virtuoso”. Il debito degli stati resta così responsabilità di chi lo ha emesso sia negli Stati Uniti sia - per ora e molto probabilmente anche in futuro - nell'Euro-area. Più precisamente, negli Stati Uniti i singoli stati debbono avere il bilancio in pareggio e possono andare in deficit solo per finanziare gli investimenti. Non che non vi siano gli aiuti. Si aiuta solo chi si trova in una crisi grave, ma ciò avviene - quando avviene – in maniera condizionata. Nell'Euro-area abbiamo lo strumento dello European Stability Mechanism. Segue dal ragionamento condotto fin qui che gli eurobond, semmai un giorno ci saranno, saranno emessi per finanziare solo il deficit centrale dell'Euro-zona, non per sostituire il debito dei singoli stati.

 

2 – Vendere il patrimonio pubblico?

Si ha una difficoltà pratica ed un problema teorico. La prima ricorda che non si sono avuti dei casi di riduzione significativa del debito pubblico attraverso la cessione del patrimonio. La seconda sostiene che, se la cessione avviene al valore pieno dell'attività, allora venderla o tenerla nel bilancio dello stato non fa differenza. Il debito pubblico netto sarebbe, infatti, eguale al debito pubblico post vendita a valore pieno. Perciò la cessione del patrimonio ha senso da parte dello stato se avviene sopra il valore pieno - ma in questo caso ci rimettono i privati. Se, invece, avviene sotto il valore pieno, ci rimette lo stato. E perché mai quest'ultimo dovrebbe vedere sotto il valore pieno? Una risposta è quella che sostiene che i privati sono più efficienti dello stato nella gestione delle attività, e dunque che alla lunga lo stato incassa - grazie alla privatizzazione - più imposte di quante altrimenti incasserebbe. In proposito si possono citare dei casi a favore e contro senza giungere ad una conclusione.

 

3 – Che dire della ricetta della spesa pubblica in deficit?

Se ho un debito con la banca di dieci mila euro e guadagno dieci mila euro sono messo peggio di quanto sarei con un debito di cinquantamila euro se il mio reddito fosse di cento mila euro. Ossia, quel che conta è il rapporto fra il debito ed il reddito, nel nostro caso il rapporto fra il debito pubblico ed il PIL.

Non meraviglia perciò che si abbia chi propone per portare sotto controllo il debito (il numeratore) di far crescere il reddito (il denominatore). Per ridurre il rapporto tra debito/PIL occorre agire sul denominatore, ossia bisogna crescere di più e per crescere di più – secondo alcuni - occorre fare più deficit. Si aumenta il deficit, e quindi aumenta il PIL. Quest'ultimo aumenta grazie ai moltiplicatori – ossia grazie al maggior reddito che sorge a seguire la spesa iniziale. Insomma, grazie ai moltiplicatori il PIL sale, e sale più del debito che inizialmente si forma per farlo ripartire. Segue dal ragionamento che il rapporto Debito/PIL scende. Può però accadere che, grazie ad un deficit più elevato, aumenti il PIL, ma non il suo tasso di crescita di medio periodo. Intanto che il debito è diventatalo maggiore e può crescere per effetto degli interessi che magari riprendono a salire. In questo caso, la soluzione della spesa pubblica in deficit non funziona.

 

4 – E dichiarare bancarotta?

Più di due terzi del debito pubblico italiano è detenuto dagli italiani stessi. Dichiarare bancarotta (pop: default) comporta perciò una tassa di entità abnorme a rivalere sugli italiani stessi. Inoltre, la parte del nostro debito di pertinenza dei non residenti è detenuta soprattutto nell’area dell’euro. Quest'ultima – dato il peso dell'Italia - entrerebbe subito in crisi se dichiarassimo bancarotta con effetti pesanti per la nostra stessa economia che esporta soprattutto nell'Unione Europea. Senza contare che una volta che si sia dichiarata bancarotta non si vede chi possa – e per molto tempo - tornare a finanziare con obbligazioni la spesa pubblica quando è in deficit. Rimane a quel punto solo l'emissione di moneta nazionale, con il rischio di emetterne più de necessario, e quindi cadere nella spirale della iper-inflazione.

 

5 – Riesumare l'oro per la Patria?

Si emettono titoli di stato che solo i residenti possono comprare. Ciò riduce i potenziali acquirenti, e quindi, per un volume dato di emissioni, salgono i tassi di interesse sul debito. E se i connazionali cambiassero idea? Li si può obbligare a tenere titoli di stato con dei vincoli di investimento. La “repressione finanziaria” è stata decenni fa uno dei strumenti per ridurre il debito. Uscire dall'euro e finanziare il deficit con le Lire è un altro modo per “dare oro alla Patria”. Uscire dall’euro, svalutando e causando inflazione grazie all'emissione di Lire è una tassa su chi ha comprato i titoli di stato. Monetizzare il deficit senza inflazione sarebbe possibile se e solo se chi viene ripagato in nuove Lire sia disposto a detenerle in quantità crescenti senza cercare di liberarsene. Il che è piuttosto improbabile.

 

6 - La lotta all'evasione?

Secondo i conti della Commissione Europea, l'evasione (= non pagare le imposte dovute) e l'elusione fiscale (= usare tutte le vie legali per ridurre le imposte dovute) ammontano a mille miliardi di euro. Il PIL dell'Unione Europea è di 15  circamila miliardi, e dunque se tutti pagassero le imposte, si avrebbero, tutto il resto restando eguale, degli introiti (circa il 6 per cento) superiori ai deficit dei paesi membri. Il problema dell'austerità sarebbe risolto, perché, se questi maggiori introiti non venissero spesi, si avrebbero i bilanci in largo attivo e quindi una veloce riduzione del debito cumulato. In alternativa si potrebbe, una volta eliminati i deficit, ridurre il carico fiscale. L'Italia è uno dei paesi con la maggiore evasione. La stima è di un 20 per cento del PIL. Anche qui, immaginando che un terzo dell'evasione prenda la forma delle imposte, avremmo un sette per cento circa di maggiori introiti. Il deficit dello stato scomparirebbe e si potrebbero tagliare le imposte. E' un luogo comune del dibattito politico (“pagare tutti per pagare meno”).

Non è però così facile eliminare l'evasione.

Intanto il 20% di evasione è una media fra la Lombardia dove si evade molto poco – un 10% circa, come in Germania – e la Calabria dove si evade moltissimo – un 50% circa. Un'ulteriore raccolta fiscale frutto della “lotta all'evasione” sarebbe di dimensioni ridotte in Lombardia (una percentuale modesta del PIL di una regione ricca), e di buone dimensioni in Calabria (una percentuale altissima del PIL di una regione povera). Regioni povere ad evasione altissima sono anche la Sicilia e la Campagna.

Bisogna poi vedere quanta parte dell'evasione non sia altro che un modo (illegale) di sostenere il reddito. Un po' come in Grecia le pensioni dei nonni aiutano i nipoti, in assenza di una rete di protezione sociale diffusa e offerta dallo stato. In conclusione, in Italia l'evasione fiscale e la Questione Meridionale si sovrappongono.

 

 

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