Rafforzare l’art bonus per favorire gli investimenti delle imprese italiane nel mondo della cultura. Che hanno voglia e interesse a spendere in questo settore presidiato da imprese che non sempre trovano sul mercato professionalità adeguate nella creazione di contenuti culturali. Innocenzo Cipolletta, presidente di Confindustria Cultura Italia, manager di lungo corso e designato alla guida dell’Aie, l’associazione che raggruppa gli editori italiani, fa il punto sul rapporto tra impresa e cultura ribadendo che l’investimento in cultura da parte delle imprese è una vera e propria «responsabilità sociale».
Professor Cipolletta, tra imprese e cultura un matrimonio che si può o si deve fare?
«Un matrimonio che si deve fare, anzi è quasi una poligamia. C’è l’impresa che investe in cultura, c’è la cultura d’impresa e ci sono le imprese che producono beni culturali. Queste ultime sono imprese che producono libri, musica, video, cinema, servizi per i musei. Si tratta di imprese industriali, con logiche di gestione non dissimili da quelle delle atre industrie manifatturiere. La cultura è in Italia un settore industriale che sta alla pari di altri settori quanto a capacità di innovazione, di occupazione, di esportazione. Bisogna quindi affrontare la politica della cultura con un taglio industriale e non solo in termini di conservazione e di tutela del patrimonio e delle tradizioni. Le imprese che producono contenuti culturali sono imprese di grande e piccola dimensione, hanno bisogno di capitali per crescere, di scuole che formino i tecnici, di un mercato strutturato che sappia far emergere una domanda elevata e sofisticata, di flessibilità organizzativa per recepire le innovazioni tecnologiche che lo stanno coinvolgendo, di forme innovative di collaborazione pubblico-privato».
C’è ancora spazio per la cultura nei bilanci delle imprese?
«Sì, c’è ancora spazio per la cultura nei bilanci delle imprese perché molte aziende riconoscono l’importanza di investire nella cultura aziendale e nelle iniziative culturali. La cultura aziendale è ormai un elemento chiave per migliorare l’efficienza operativa delle aziende, per preservare la loro storia e la loro identità senza frenarne il progresso e quindi la competitività. In estrema sintesi, le imprese investono in attività culturali non solo per ottenere vantaggi finanziari diretti, ma anche per costruire relazioni positive con la comunità, migliorare l'immagine aziendale e promuovere l’innovazione. Questi investimenti rappresentano una forma di responsabilità sociale d’impresa e contribuiscono a una società più ricca dal punto di vista culturale. Gli investimenti in cultura da parte delle imprese sono cresciuti non a caso grazie all’istituzione dell’art-bonus che consente deduzioni fiscali per investimenti in cultura come in tutti i paesi sviluppati. È importante che lo Stato riconosca lo sforzo delle imprese e in questo campo si può fare di più».
Quanto investono, concretamente, le imprese italiane in cultura?
«Gli investimenti delle imprese italiane nella cultura possono variare notevolmente da un’azienda all’altra e da un settore all’altro. Alcune imprese destinano una parte significativa del loro bilancio alla cultura attraverso sponsorizzazioni di Festival o eventi culturali come mostre d’arte, attraverso il mecenatismo sostenendo quindi finanziariamente musei, teatri, biblioteche o contribuendo direttamente alla produzione di contenuti culturali, come film, libri, musica. Nell’audiovisivo, e in parte anche nella musica, sono state ideate delle formule ad hoc come il tax credit per sostenere e agevolare gli investimenti delle imprese esterne alla filiera nella produzione di contenuti culturali. Come dicevo prima, c’è spazio ancora per incentivare l’investimento delle imprese in cultura ed io mi auguro che il Governo colga l’occasione per ampliare lo spazio di sostegno a questa meritoria attività d’investimento da parte delle imprese».
La cultura genera crescita economica?
«Parliamo di un settore che genera valore economico con rilevanti ricadute sul territorio e su altri settori industriali. È un driver importante di sviluppo e crescita del sistema economico italiano avendo la capacità di originare valore partendo dalla creatività locale, di dipendere in misura limitata dalle importazioni, di arricchire filiere parallele sul territorio. Stiamo parlando di imprese, di lavoratori che mettono a disposizione della collettività la loro creatività e il loro ingegno, di una filiera industriale che garantisce valore aggiunto sul territorio, una ricchezza che contribuisce a generare ricavi, posti di lavoro, produttività e quindi crescita economica. E non mi riferisco solo alle attività culturali in senso stretto. Basti pensare a quanto dipendono dalla cultura settori come il mobile o l’abbigliamento».
Come vanno le cose all’estero? Ad esempio a Parigi c’è una gara “culturale” in corso tra i due grandi magnati della moda…
«Lo Stato francese ha investito in cultura somme considerevoli nel tempo e questo ha dato i suoi frutti perché i privati hanno finito per collaborare. Ma si potrebbe fare anche in Italia. L’industria culturale è una riconosciuta eccellenza del Made in Italy che consente di raccontare al mondo pagine importanti del nostro Paese costruendone un’immagine e una memoria condivisi e per farlo serve anche qui una politica industriale che rafforzi strumenti di sostegno per l’export dei prodotti, per rilanciare l’incoming di turisti, per la partecipazione delle imprese a fiere e festival esteri. Bisogna fare sistema sia in termini di filiera, sia in termini di collaborazione tra portatori di interessi comuni all’interno del mondo della cultura. Lo sforzo che bisogna continuare a fare è quello di invogliare gli operatori culturali a lavorare insieme, a fare comunità rispetto ad un determinato progetto. Un esempio tipico potrebbe essere l’anno dell’Italia alla Fiera del libro di Francoforte nel 2024, un evento che programmaticamente abbraccia la cultura italiana nel suo complesso e non solo l’industria libraria».
Dietro la cultura c’è anche un’industria. Come vanno le cose in tal senso?
«La consapevolezza in Italia e in Europa della centralità del ruolo della cultura è sicuramente cresciuta dopo la pandemia che ha duramente colpito il settore che però ha saputo reagire alla crisi provocata dall’emergenza sanitaria dimostrando grande visione e competitività nella creazione di nuovi modelli di produzione e di fruizione dei prodotti culturali trasformando così la crisi in un processo di crescita. Oggi possiamo dire che il mondo della cultura è considerato per quel che è, vale a dire una attività economica da sviluppare e non un semplice bene da tutelare e la sfida è quella di rafforzare l’industria culturale nel suo complesso all’interno delle logiche produttive e di sviluppo del nostro Paese».
Esistono percorsi formativi in grado di formare i nuovi addetti alle produzioni e alle attività culturali?
«La formazione è oggi un tema centrale, questo perché il mondo della cultura è in continua trasformazione, basti pensare all’innovazione tecnologica che da sempre investe il comparto comportando quindi la necessità di portare a bordo professionalità in grado di dare quella spinta di cui il settore ha bisogno per il futuro. Esistono importanti esempi di formazione: dalla scuola Mauri per librai, all’Anica Accademy e l’obiettivo è quello di mettere il tutto a sistema permettendo così ai giovani di sapersi orientare verso una scelta consapevole del percorso formativo avvicinandoli da subito alle imprese tenendo conto delle esigenze professionali di quest’ultime».
Come regge l’Italia il confronto con gli altri Paesi europei?
«L’industria culturale italiana ha un patrimonio culturale e artistico straordinario, ma deve affrontare la concorrenza di altre nazioni europee che spesso mettono in campo risorse economiche maggiori o hanno una presenza più consolidata sul mercato globale. L’obiettivo è intervenire sugli aspetti in cui l’Italia risulta più debole, se pensiamo al consumo culturale ci sono ovviamente settori che hanno numeri in linea con quelli degli altri Paesi europei e altri che invece sono un passo indietro. Occorre quindi delineare insieme alle istituzioni una strategia che porti l’Italia ai massimi livelli».
Lei è presidente designato dell’Aie. In che condizioni è l’editoria italiana?
«È un settore estremamente vivace e in salute. Lo definirei innovativo, sia nel prodotto – oggi oltre al libro di carta abbiamo ebook, audiolibri ma anche contenuti digitali integrativi - che nei processi. Ha grandi sfide davanti: penso all'impatto dell'intelligenza artificiale sul diritto d'autore, che è alla base di ogni opera dell’ingegno, all'internazionalizzazione del libro italiano che, come dicevo, troverà la sua massima espressione con l’Italia ospite d’Onore nel 2024 alla Fiera internazionale del libro di Francoforte, sino al tema centrale della lettura, elemento fondante nella crescita del Paese anche in termini di contrasto alla povertà educativa. Ci metteremo subito a lavoro».
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