Regno Unito, una maggioranza forte in un paese sfiduciato e diviso
Sulle due sponde della Manica, sono settimane di cambiamento. Giovedì 4 luglio, gli inglesi hanno votato, mettendo come previsto la parola fine a 14 anni di caotico governo conservatore e dando ai laburisti oltre 410 seggi, una maggioranza dunque paragonabile a quella di Tony Blair nel 1997. Le somiglianze con l’epoca Blair, però, finiscono qui. Il clima di sfiducia generalizzata che caratterizza oggi il paese non ha niente a che vedere con quello che si respirava quasi trenta anni fa, quando tutta l’Europa godeva ancora del “dividendo della pace”, conseguenza del crollo della Cortina di ferro.
L’edizione 2024 dell’indagine British Social Attitudes (una ricerca modello, che da 40 anni esplora il clima sociale e politico del paese) è stata pubblicata il 12 giugno scorso. Uno dei suoi risultati (vedi figura) è che la sfiducia nel sistema politico non è mai stata così alta come adesso. Non stupisce dunque che la partecipazione al voto – intorno al 60 per cento – sia risultata al minimo da circa un secolo.
L’interesse di partito viene prima dell’interesse nazionale
La vittoria del Labour, inoltre, è certamente il risultato dello scontento nei confronti dei governi conservatori succedutisi dal 2010 a oggi, ma è anche effetto di un voto estremamente frammentato, ricondotto a un risultato univoco solo dal sistema elettorale: in termini percentuali, il Labour ha ricevuto il 34 per cento dei consensi, i Conservatori il 24, Reform di Farage il 14, i Liberali il 12 e i Verdi il 7 per cento. Per confronto, nel 2017 un partito laburista molto più a sinistra, come era quello di Jeremy Corbin, aveva perso le elezioni conquistando oltre il 40 per cento dei voti. E l’approdo in Parlamento di Nigel Farage – con 4 seggi, e all’ottavo tentativo – rappresenterà una spina nel fianco permanente per un partito conservatore sempre più diviso fra moderati e estremisti.
Il nuovo Primo ministro Sir Keir Starmer, pragmatico, moderato ma implacabile nella determinazione a conquistare prima la guida del suo partito e poi quella del paese, si troverà a gestire una situazione complicata anche sul piano dell’economia e delle finanze pubbliche, come mostra la tabella.
Per Starmer, un’eredità assai più pesante di quella che si ritrovò Blair
Da Starmer gli inglesi si aspettano probabilmente soprattutto calma, competenza, e volontà di affrontare i problemi del paese, sfiancato – fra l’altro – dai conflitti legati a Brexit (scelta di cui gli inglesi parrebbero oggi essersi largamente pentiti: a maggio scorso, il 55 per cento si dichiarava convinto che lasciare l’Unione europea sia stato un errore, solo il 31 affermava che era stata una buona idea). Saggiamente, Starmer si è impegnato a non riaprire quella pagina tossica. Con molta prudenza, ha fatto campagna elettorale dicendo che la sua priorità è la crescita, non la redistribuzione. Rimettere in moto il paese, però, non sarà semplice. Restituire un senso di calma e di prevedibilità non basta, e la gratitudine si esaurisce in fretta. La scommessa più impegnativa, in verità, sarà quella di ricucire ferite e divisioni, ricostruendo un orizzonte credibile di opportunità diffuse, e ispirando la certezza che valga la pena impegnarsi per renderlo possibile. Non è un compito facile, né dal risultato scontato.
Francia, gli elettori potrebbero anche scegliere il caos
Domenica 7, invece, voteranno i francesi nel turno di ballottaggio delle elezioni legislative. Qui il futuro è assai poco prevedibile. La partecipazione elevata al primo turno di domenica 30 giugno (67 per cento, contro una previsione del 60 per cento circa alla vigilia) ha “salvato” i centristi del Presidente Emmanuel Macron, consentendo loro l’accesso al secondo turno in un discreto numero di seggi. Sempre per effetto della elevata partecipazione, oltre 350 seggi sono andati al ballottaggio, con tre (in rari casi anche quattro) candidati.
Nei due giorni successivi, si è messo in moto il meccanismo delle cosiddette “desistenze”, ossia la rinuncia alla candidatura nel secondo turno volta, tatticamente, a favorire un candidato di un altro partito meglio piazzato: nel 2024 questo ha coinvolto soprattutto i candidati della sinistra (Nouveau Front Populaire) che si sono ritirati dove c’era un centrista al primo posto, e, in maniera meno sistematica, i candidati centristi di Ensemble che si sono ritirati a favore della sinistra. Il risultato, alla vigilia del voto, è questo.
Il Rassemblement National compete in oltre 350 ballottaggi a due
Sulla carta, dunque, il Rassemblement National ha ancora la possibilità di conquistare la maggioranza assoluta dei seggi (289) nell’Assemblea Nazionale. Le analisi e le proiezioni pubblicate finora (vedi tabella) direbbero però che è più probabile un parlamento diviso, dove non c’è una maggioranza politica.
Verso un Parlamento senza maggioranza?
Le proiezioni, come si vede, sono abbastanza simili, ma va pure detto che si tratta di un esercizio difficile, che nelle elezioni passate non ha dato risultati particolarmente buoni. Bisogna, dunque, prenderle con più di un pizzico di prudenza. Il Rassemblement National, con il 33 per cento del voto contro il 28 del NFP e il 20 dei centristi al primo turno, è e resta il chiarissimo vincitore politico delle elezioni. Nel caso in cui non raggiungesse la maggioranza assoluta dei seggi al secondo turno, non esisterebbe comunque una maggioranza politica alternativa. Bardella ha dichiarato che il RN governerà da solo, o starà all’opposizione se non avrà i numeri per farlo. I centristi hanno escluso qualunque forma di collaborazione oltre che – evidentemente – con il partito di Le Pen e Bardella, anche con La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon. Non sono le sole cose che sono state dette in questi giorni, tutt’altro. E non sempre si è trattato di dichiarazioni coerenti. Emmanuel Macron, nel frattempo, non ha aperto bocca, e per i centristi ha parlato – fra gli altri – il presidente del Consiglio Gabriel Attal.
Di fatto, se il vincitore politico è il RN, lo sconfitto è Macron. In filigrana, parrebbe emergere l’idea di spaccare la sinistra e recuperare anche un pezzettino della destra gollista per mettere insieme un governo che raccolga tutti i moderati, escludendo dunque RN e France Insoumise. È dubbio che ci saranno i numeri per un’operazione del genere, è “dubbissimo” anche che ci siano le condizioni politiche per metterla in atto.
Come sempre, il risultato dipenderà, oltre che dalle scelte degli elettori, anche da quelle che faranno i leader politici la mattina dopo. La decisone di Macron di indire elezioni politiche a tre settimane dalla sconfitta alle europee del 9 giugno puntava sul fatto di mettere i francesi con le spalle al muro – o me o il caos – anche perché i tempi toglievano al centro e alla sinistra qualunque possibilità di esplorare opzioni politiche differenti dal serrare i ranghi, ciascuno nel suo recinto. Non si può escludere, a questo punto, che i francesi scelgano una qualche forma di caos.
Soprattutto in questa evenienza, c’è solo da sperare che la sera del 7 luglio prevalgano prudenza e lungimiranza. C’è da sperarlo per la Francia e i suoi cittadini, c’è da sperarlo anche – e almeno altrettanto – per l’Europa.
Fonte immagine copertina: imagoeconomica.it
© Riproduzione riservata