La notizia, filtrata nei giorni scorsi, è in apparenza di rilievo minore, di quelle sospese a metà tra il tecnicismo e la cronaca militare ordinaria: la Marina americana ha deciso di modificare il contratto per la consegna della prossima portaerei nucleare della classe Ford, la John F. Kennedy (Cvn 79), in fase di allestimento.

L’obiettivo è di immetterla in servizio al più presto possibile, cioè entro la metà del 2024, risparmiando almeno un anno di tempo per la sua piena operatività, anche al prezzo di un ulteriore finanziamento di 315 milioni di dollari (un ritocco accettabile rispetto al costo globale, previsto in 11,35 miliardi di dollari) concesso al cantiere costruttore, il Newport News Shipbuilding, in Virginia. Questi s’impegna a consegnarla completa di tutte le apparecchiature elettroniche, comprese quelle destinate a far funzionare debitamente i 20/24 caccia F-35 imbarcati, in origine destinate a essere installate in un secondo tempo insieme a questo tipo di aerei.

Da dove nasce tutta questa fretta?

Perché per gli Stati Uniti diventa così importante avere in linea la nave un anno prima del previsto? Il numero delle portaerei americane, nei prossimi decenni, è destinato a scendere da 11 a nove, ma tale sacrificio sarà ampiamente compensato dall’aumento delle navi più “sottili” (quattro portaerei più piccole, fregate, navi d’assalto anfibie, unità costiere, sottomarini d’attacco e naviglio telecomandato privo di equipaggio), nell’ottica della marina da 355 navi entro il 2030 decisa dalla presidenza Trump (anche se saranno appena 326 nel 2023). Senza contare la richiesta, avanzata in ottobre dal Segretario alla Difesa, Mark Esper, licenziato pochi giorni or sono da Trump, di una flotta forte addirittura di 500-530 unità entro il 2045.

Questa corsa al gigantismo numerico rappresenta una svolta rispetto al numero minimo di 270 navi toccato tra il 2007 e il 2015 quale tardivo effetto del cosiddetto “dividendo della pace” prodotto dalla fine della Guerra Fredda, quando le unità più obsolete venivano rimpiazzate soltanto in minima parte per la mancanza di un vero “nemico” all’orizzonte e per ridurre nel contempo le spese militari. Tuttavia non costituisce una sorpresa.

La sfida strategica

Una delle maggiori sfide strategiche per Washington, infatti, è che la flotta cinese sta crescendo, in termini numerici e qualitativi, con una rapidità mai raggiunta in passato. Dal 2018 essa è diventata la più consistente al mondo con 317 unità, contro le 283 schierate dalla marina americana. Al ritmo di 15/20 navi varate ogni anno nell’ultimo quinquennio (contro le 5/10 consegnate negli Usa), oggi le navi cinesi sono salite a 360, contro le 301 che alzano la bandiera a stelle e strisce. Ecco, quindi, che poter schierare una nuova portaerei con un anno di anticipo sul previsto diventa, per gli Usa, una faccenda di grande rilievo.

Certo, sulla carta, l’enorme flotta cinese ha ancora dei limiti: molte sue unità sono di vecchio tipo, concepite nel secolo scorso per difendere, grazie al loro numero e alla loro “spendibilità”, le coste cinesi da un temuto attacco americano, culminante con lo sbarco di grandi forze anfibie. Gli equilibri, tuttavia, stanno rapidamente mutando: il ritmo di costruzione degli scali cinesi, come si è accennato, è altissimo, grazie anche a cantieri sempre più numerosi e attrezzati, e nel corso del prossimo decennio si avrà la sostituzione pressoché completa del naviglio obsoleto.

Proprio questo è il principale timore del Pentagono: che la flotta di Pechino, sempre più numerosa e moderna, passi dallo schieramento difensivo e “costiero” tenuto finora (con la vocazione al “sea denial”, l’interdizione al nemico dell’uso dei mari circostanti le sue coste, soprattutto il Mar Cinese Meridionale, ma anche le acque che vanno dalle Filippine al Giappone) a uno in cui proietti la sua potenza in “altura”, prima sull’intero Pacifico e poi sui sette mari del mondo. La flotta cinese si appresta dunque a diventare una vera “blue water navy”, in grado di sfidare ad armi pari quella americana, sottraendole quello strumento decisivo d’influenza strategica planetaria finora detenuto in esclusiva, grazie alle sue sei flotte, dalla fine della Seconda guerra mondiale. Si realizzerebbe così uno dei capisaldi del pensiero di Sun Tzu, il grande stratega cinese vissuto nel VI secolo avanti Cristo: “Puoi garantire la sicurezza della tua difesa soltanto se controlli posizioni che non possano essere attaccate”.

A complicare ulteriormente le cose per gli Stati Uniti è giunta anche la crisi economica causata dal Coronavirus, che appare molto grave per Washington ma trascurabile per Pechino. Questa potrà - secondo le direttive del 14° Piano quinquennale di sviluppo 2021-2025 discusso all’inizio di novembre dal Comitato Centrale del Partito Comunista cinese - coniugare “uno sviluppo stabile” con “una società moderatamente prospera”, che costituisce la vera garanzia della sicurezza del Paese. Senza dover sacrificare gli attuali piani di sviluppo per i principali settori produttivi, armamenti compresi.

Non così potrebbe essere per gli Usa. È noto che il neo-presidente Joe Biden è favorevole a una certa riduzione delle spese militari (la marina, da sola, nel 202 costerà 207 miliardi di dollari), sia per affrontare i costi della pandemia, sia per reperire le risorse necessarie al finanziamento dei suoi ambiziosi programmi di risanamento ambientale.

Come conciliare gli obiettivi di Biden con il riarmo accelerato di Pechino, specie in campo navale?

La risposta a questa domanda è racchiusa nell’intera impostazione economico-strategica della nuova presidenza. È possibile che, se un certo disgelo dovesse instaurarsi nei rapporti bilaterali sino-americani, l’argomento flotte compaia nelle rispettive agende diplomatiche. Magari collaterale e propedeutico a un più generale negoziato sui livelli di armamenti strategici globali, rozzamente sollecitato da Trump nei mesi scorsi ma che, prima o poi, dovrà essere affrontato dalle due parti insieme alla Russia. Forse una riedizione del Trattato navale di Washington del 1922, che per un quindicennio congelò la corsa agli armamenti navali fino alla vigilia del secondo conflitto mondiale, potrebbe essere alle viste. Essa sarebbe conveniente per tutti, dando regole e tempi certi alla corsa al possesso della flotta più grande al mondo e limitando le rispettive spese militari. Almeno in questo campo.