“L’inflazione delle proteine è a tre cifre”. È questo il titolo di un articolo pubblicato sabato 2 marzo, all’indomani delle elezioni iraniane, sul quotidiano riformista ‘Ettemad’ dato alle stampe a Teheran. Nell’articolo si legge che nell’ultimo anno il costo della carne di agnello è raddoppiato, passando da 5 a 10 euro al chilo. Se la carne rossa è aumentata del 100%, il prezzo del tonno in scatola è cresciuto del 133%. Con uno stipendio medio mensile di soli 150 euro, oggi buona parte della popolazione iraniana è in difficoltà. L’Iran è un Paese ricco di petrolio e di gas, ma quasi un terzo degli abitanti della Repubblica islamica vive sotto la soglia di povertà a causa dell’inflazione e della diminuzione del potere d’acquisto, motivati dalla cattiva gestione della cosa pubblica, dalla corruzione e dalle sanzioni internazionali.
Le sanzioni internazionali dovevano essere alleggerite in seguito alla firma - nel luglio 2015 - dell’accordo nucleare (JCPOA, il Joint Comprehensive Plan of Action). Ma il sistema sanzionatorio messo in atto dal Tesoro statunitense è complesso, anche nel caso in cui lo si volesse smantellare. Inoltre, a firmare quell’accordo era stato il presidente democratico Barack Obama, ma il Congresso statunitense non lo aveva ratificato. Di conseguenza, il presidente repubblicano Donald Trump aveva avuto gioco facile quando, l’8 maggio 2018, aveva emanato un National Security Presidential Memorandum ritirando gli Stati Uniti dall’accordo nucleare e, dopo un periodo di wind down per autorizzare le attività di liquidazione e disinvestimento, aveva imposto nuove sanzioni contro l’Iran. Tra queste, vi sono anche le secondary sanctions che colpiscono non solo le cosiddette United States persons (tutti i cittadini statunitensi ovunque si trovino; tutti gli stranieri residenti permanenti negli Stati Uniti, e quindi i possessori di green card; tutte le entità organizzate e incorporate ai sensi delle leggi degli Stati Uniti; tutte le persone che si trovano negli Stati Uniti), ma anche i soggetti non statunitensi, e quindi per esempio le imprese europee e i loro manager che decidano di continuare a fare business con l’Iran.
Di fronte alle sanzioni secondarie statunitensi che avrebbero potuto metterle in serie difficoltà, impedendo loro di utilizzare i dollari e rovinando la loro reputazione sui mercati, le imprese europee hanno rinunciato a commerciare con Teheran. Di fatto, l’Unione Europea non ha quindi mantenuto fede a quell’accordo nucleare firmato a Vienna il 14 luglio 2015. Da parte loro, gli iraniani l’avevano invece rispettato, come aveva d’altronde certificato l’AIEA, ovvero l’Agenzia internazionale per l’energia atomica di cui l’Italia è uno dei paesi fondatori. Un’agenzia delle Nazioni Unite, l’AIEA, autorevole, finanziata anche con le tasse pagate da noi contribuenti italiani, visto che rappresentiamo il sesto finanziatore versando circa il 4,8% del budget complessivo.
Con l’inasprirsi delle sanzioni internazionali e la messa in atto dell’embargo petrolifero voluto da Trump, l’economia iraniana non ha potuto risollevarsi nonostante i tentativi di Russia e Cina nello sminuire la forza delle sanzioni, bypassando l’embargo sull’export degli idrocarburi, di gran lunga la maggior fonte di introiti per la Repubblica islamica. A questo proposito, l’80 percento delle esportazioni di greggio dell’Iran sono convogliate verso la Cina, che resta il maggiore importatore di petrolio al mondo. Le cosiddette “teiere” cinesi – ovvero le piccole raffinerie indipendenti su piccola scala, le teapots concentrate nella provincia costiera dello Shandong – hanno fatto scorta di oro nero iraniano a prezzi di favore, mentre le imprese statali cinesi non hanno ripreso l’importazione e la raffinazione del petrolio iraniano perché le sanzioni secondarie del Tesoro statunitense restano un deterrente.
Gli iraniani soffrono dunque per la mancanza di diritti e libertà, ma anche per la crisi economica che attanaglia il paese. Basti pensare che da marzo 2022 a oggi il dollaro vale il doppio rispetto al rial e sabato scorso, all’indomani delle elezioni, servivano 620mila rial per acquistare un biglietto verde statunitense. Di pari passo, qualche giorno fa erano fuori servizio i cambia valute e il mercato dell’oro era stato bloccato. La rabbia della popolazione è dovuta anche al fatto che in questi decenni la leadership di Teheran ha elargito milioni a Hamas e ai palestinesi, anziché investire in Iran. Ed è per questo che, paradossalmente, nella guerra in corso a Gaza una parte dell’opinione pubblica iraniana non è schierata con i palestinesi, come ci si aspetterebbe guardando alle piazze arabe, ma con Israele.
In questo difficile contesto, venerdì 1° marzo 61 milioni di iraniane e di iraniani sono stati chiamati alle urne per scegliere i 290 deputati di un parlamento che risale agli inizi del Novecento e gli 88 membri dell’Assemblea degli Esperti. Si è trattato delle prime elezioni dopo la morte della ventiduenne curda Mahsa Amini e delle proteste di piazza del movimento Donna vita libertà. Nel voto di venerdì scorso, l’affluenza alle urne è stata soltanto del 41% con un minimo registrato nella capitale Teheran, dove soltanto il 24% degli aventi diritto sarebbe andata a votare. Tante astensioni, tante schede bianche. Si tratta dell'affluenza più bassa mai registrata alle legislative dalla Rivoluzione islamica del 1979, sullo sfondo degli appelli all'astensione lanciati da numerosi candidati moderati o riformisti prima del voto.
Dei 61 milioni aventi diritto, soltanto 25 milioni sono però andati a votare e molti di loro hanno messo nell’urna la scheda bianca. Un modo per esprimere il proprio dissenso, tenuto conto che certe categorie (dipendenti pubblici, studenti, militari) sono obbligati ad andare a votare e quindi ad avere il timbro sul certificato elettorale. Nelle elezioni presidenziali del 2022, le schede bianche o nulle erano più dei voti del candidato arrivato secondo. Questa volta, a Teheran le schede bianche o nulle sono il 40%. Ad astenersi sono stati 35 milioni di iraniani e, tra questi, anche l’ex presidente riformatore Mohammad Khatami, in carica per due mandati consecutivi dal 1997 al 2005.
I deputati eletti saranno in carica per i prossimi quattro anni. Al parlamento, dei 245 seggi già assegnati, una maggioranza assoluta di oltre 200 è andata ai candidati conservatori e ultraconservatori. Tra questi, a ottenere un numero maggiore di voti sono stati Mahmoud Nabavian, Hamid Resaee, il presentatore televisivo Amir Hossein Sabeti e il presidente del parlamento Mohammad Bagher Ghalibaf. Non si è invece aggiudicato il seggio il moderato Mohammad Bagher Nobakht che aveva osato criticare le difficili condizioni in cui versa il paese. La stragrande maggioranza di riformisti e moderati non ha potuto correre in queste elezioni, perché il Consiglio dei Guardiani ne ha bocciato la candidatura e soltanto una manciata di seggi è stata aggiudicata a questi gruppi. Gli altri 45 seggi mancanti al totale di 290 di cui è composto il Parlamento iraniano andranno al ballottaggio – ad aprile o maggio, dopo il mese di Ramadan - in 15 province tra cui Teheran (in 16 seggi).
Gli 88 membri dell’Assemblea degli Esperti saranno in carica per otto anni e, di conseguenza, saranno molto probabilmente incaricati di scegliere il prossimo leader supremo, come il conclave fa con il pontefice. Al potere dal 1989, l’ayatollah Ali Khamenei ha 84 anni e non gode di ottima salute. Per ora, i suoi possibili successori sembrano essere suo figlio Mojtaba e l'attuale presidente Ebrahim Raisi. In queste ultime elezioni per l’Assemblea degli Esperti, i membri più votati sono stati Alireza Araafi, già membro del Consiglio dei Guardiani che decide chi si può candidare alle elezioni e può esercitare il diritto di veto sulle leggi promulgate dal parlamento; Mohsen Qomi, già vice consigliere della Guida suprema, Ali Khamenei, per le comunicazioni internazionali; e Hossein Ali Saadi. Non ha avuto invece il rinnovo del seggio l’ex presidente moderato Hassan Rohani, escluso da questa corsa elettorale.
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