Nelle elezioni presidenziali di venerdì 28 giugno, il moderato Masoud Pezeshkian ha ottenuto 10,5 milioni di voti (42,5% delle preferenze), il conservatore radicale Saeed Jalili 9,5 milioni di voti (38,6%), il presidente del Parlamento Mohammad Baqer Ghalibaf 3,4 milioni (13,8%) e l’ex ministro della giustizia Pourmohammadi soltanto 206.000 voti (meno dell’1%). Su 61 milioni di aventi diritto, hanno votato 24,5 milioni di iraniani. Di questi, un milione ha votato scheda bianca, oppure l’ha annullata. L’affluenza alle urne è stata quindi soltanto del 39,9%, un minimo storico che ha coinvolto anche l’elettorato conservatore dato che, nel loro tradizionale presidio a Isfahan, la percentuale è stata di poco più del 40%.
Tra i motivi di questa bassa affluenza alle urne vi sono la rabbia, la disillusione, l’appello delle opposizioni – anche nella diaspora - a disertare le urne per delegittimare il regime, ma anche il caldo torrido (nel sud si raggiungono i 50°) e il fatto che si è trattato di elezioni organizzate rapidamente, 50 giorni dopo la morte del presidente Ebrahim Raisi in un misterioso incidente di elicottero lo scorso 19 maggio.

In questi anni, in Iran l’affluenza alle urne è stata sempre in calo. Nelle politiche del 2020 aveva votato il 42%. Nelle elezioni del 2021, in cui Ebrahim Raisi si era aggiudicato la presidenza della Repubblica islamica, si era espresso il 48,8% degli aventi diritto. Raisi aveva infatti ottenuto 18 milioni di voti, mentre quest’anno Jalili e Ghalibaf hanno racimolato, insieme, soltanto 12,9 milioni di voti. Nelle ultime legislative, a marzo di quest’anno, il turnout era stato del 41%. L’ex ministro degli Esteri Javad Zarif ha dichiarato che l’astensionismo sarebbe motivato dal fatto che la popolazione è scontenta e si è scusato per le tante bugie della politica. Secondo il giornalista Mehran Solati, autore di un articolo sul quotidiano riformatore Hammihan, tanti iraniani non avrebbero votato per rabbia e disillusione, soprattutto nel caso delle minoranze etniche. E, infatti, la maggiore astensione alle urne si è registrata nel Kurdistan e nel Sistan Balucistan, ovvero in quelle regioni in cui sono state più accese le proteste del movimento Donna vita libertà innescato dalla morte della ventiduenne di etnia curda Mahsa Amini il 16 settembre 2022.

Fonte: iranintl.com

Il contesto interno e internazionale ha di certo condizionato l’elettorato: da una parte repressione di regime, alta inflazione, disoccupazione e svalutazione record del rial; dall’altra il coinvolgimento iraniano, non soltanto attraverso i suoi proxy, nella guerra tra Hamas e Israele, e le tensioni sul nucleare. Venerdì scorso nessuno dei quattro candidati ha ottenuto la maggioranza assoluta. Di conseguenza, venerdì 5 luglio il moderato Masoud Pezeshkian e il conservatore radicale Saeed Jalili si confronteranno al ballottaggio e molti iraniani andranno alle urne soltanto per scongiurare il peggio. Si tratta di due personaggi molto diversi, entrambi appartenenti all’establishment, seppur a schieramenti differenti, e contraddistinti dalla mancanza di carisma.

Nato nella città santa di Mashad nel 1965 e di etnia persiana, Saeed Jalili è un politico, diplomatico e militare vicino al leader supremo Ali Khamenei. È un integralista, in tutti i sensi, e un ex ministro ha previsto che il suo governo potrebbe essere paragonabile a quello dei Talebani in Afghanistan. Ricopre il ruolo di membro del Consiglio per l’interesse nazionale creato nel 1988 dall’Ayatollah Khomeini per dirimere i conflitti tra i diversi organi del complesso sistema politico della Repubblica islamica, ed è ritenuto uno delle 500 personalità più influenti del mondo musulmano. Durante il conflitto Iran-Iraq (1980-88) aveva combattuto nel ruolo di basiji (miliziano) e nell’assedio di Bassora del 1986 era stato ferito gravemente alla gamba destra. Dopo la guerra ha conseguito un dottorato in Scienze politiche e insegnato “Diplomazia del Profeta” all’Università Imam Sadeq. In questi decenni ha ricoperto numerosi ruoli: è stato negoziatore per il nucleare, segretario del Consiglio supremo della sicurezza nazionale (2007-2013) durante la presidenza del radicale Mahmoud Ahmadinejad e viceministro per gli affari europei e americani. Conosce la lingua araba e l’inglese. Si era già candidato alle presidenziali nel giugno del 2013 aggiudicandosi il terzo posto, e nel 2021 si era candidato ma si era ritirato favorendo Raisi.

Saeed Jalili è il candidato dello status quo, il più vicino al suo predecessore Raisi. Ripiegato sulle questioni interne al paese, non bada granché a quel che accade nel mondo. In campagna elettorale ha dichiarato di voler rafforzare la valuta locale, introdurre la tassa sui patrimoni, riformare la politica fiscale, promuovere la giustizia sociale, risolvere la questione della carenza di abitazioni. In assenza di soluzioni puntuali, l’impressione è però che si tratti soltanto di slogan. Per vincere nel ballottaggio di venerdì 5 luglio, Jalili dovrebbe portare alle urne coloro che non hanno votato e, soprattutto, dovrebbe convogliare su di sé i voti del terzo classificato, Ghalibaf. Ma non è scontato che l’elettorato di Ghalibaf preferisca Jalili a Pezeshkian. Anche perché è risaputo che, se dovesse vincere Jalili, i rapporti con l’Occidente resterebbero tesi, non si tornerebbe a negoziare un nuovo accordo nucleare, le sanzioni internazionali potrebbero aumentare e di pari passo anche l‘inflazione, mentre l’economia iraniana resterebbe stagnante.

Per gli iraniani, l’alternativa è Masoud Pezeshkian, un signor nessuno tirato fuori dal cilindro per solleticare l’interesse dei votanti e dare qualche speranza di cambiamento in un sistema politico in cui nulla pare riformabile. Ha avuto l’endorsement degli ex presidenti Mohammad Khatami (riformatore) e Hassan Rohani (moderato), dell’ex leader del movimento verde di opposizione Mehdi Karroubi e dell’ex ministro degli Esteri Javad Zarif che lo ha affiancato in un dibattito televisivo. Di fatto, Pezeshkian non ha avuto però il tempo di farsi conoscere e di convincere l’elettorato. 69 anni, è medico chirurgo, direttore di un ospedale. Dal 2001 al 2005, durante la presidenza del riformatore Mohammad Khatami, aveva ricoperto il ruolo di ministro alla Salute e dal 2008 è deputato. Ha perso la moglie e una figlia in un incidente stradale e non si è mai risposato. L’altra figlia, Zahra, ha partecipato ai dibattiti televisivi dando l’immagine di una persona umile e studiosa.

Il candidato moderato Pezeshkian è di padre azerbaigiano e di madre curda (entrambi iraniani). E infatti in Azerbaigian lo hanno votato in tanti, mentre in Kurdistan è stata ignorato. Molti analisti avevano previsto che avrebbe attirato il voto delle minoranze, ma le preferenze degli azerbaigiani non sono state sufficienti per farlo vincere al primo turno. In mancanza di una vittoria secca, ora il rischio è che Jalili assorba i voti di Ghalibaf perché entrambi appartengono al fronte conservatore. Ma in Iran nulla è scontato, nulla è prevedibile. Da parte sua, Pezeshkian è critico nei confronti della polizia morale che perseguita le donne mal velate, è favorevole alla ripresa dei negoziati sul nucleare per poter appianare le tensioni con la comunità internazionale e al rispetto degli standard internazionali di trasparenza dettati dal Financial Action Task Force (FATF) per uscire dalla lista nera, rientrare nel sistema SWIFT e attirare investimenti stranieri. In economia non ha ricette pronte, si è limitato a dichiarare che se ne devono occupare i tecnici. In merito ai rapporti con Washington si è chiesto: “Siamo condannati ad essere eternamente ostili all’America, oppure aspiriamo a risolvere i nostri problemi con questo Paese?”

Resta da vedere che cosa succederà di qui a venerdì. Con qualche variabile all’americana, come la salute di uno dei due candidati. Pare infatti che il moderato Pezeshkian stia cercando di schivare il confronto televisivo con il suo avversario adducendo problemi di salute. Di conseguenza, ci si domanda se, nel caso in cui fosse eletto, sarebbe in grado di svolgere le funzioni di presidente della Repubblica islamica.