Giuseppe Calabrese, torinese, dirigente di ricerca all’Ircres-Cnr, responsabile scientifico dell’Osservatorio sulle trasformazioni dell’ecosistema automotive italiano, membro dell’International Steering Committee del Gerpisa di Parigi, è l’interlocutore giusto per fare il punto sul settore automobilistico. Non solo in Italia.
Professore, secondo Federmeccanica e i sindacati lo stop alla vendita di auto diesel e benzina dal 2035 mette a rischio 73 mila posti di lavoro in Italia. Concorda?
«E’ un bel enigma. Per questo abbiamo dato vita a un osservatorio per calcolare gli effetti reali su tutta la filiera dell’auto e non solo sulla componentistica. Per intenderci consideriamo anche le infrastrutture che si creeranno per le ricariche. Comunque noi siamo più ottimisti. Calcoliamo in 14 mila i posti a rischio nei prossimi dieci anni. E’ una stima. D’altronde tutti i rapporti si basano su stime. Ma è indubbio che una parte importante dell’indotto auto sta cambiando pelle, si prepara alla svolta dei motori elettrici. Che hanno, questo è assodato, meno componenti di quelli endotermici».
Nel capitolo di apertura del dossier di Federmeccanica e sindacati lei ha fatto un confronto quantitativo tra alcuni sistemi automotive europei. Qual è lo stato di salute che emerge?
«Bisogna distinguere. I volumi sono in riduzione. Per tutti. La stessa Germania rispetto al 2010 ha registrato un calo vicino al dimezzamento: nel 2021 ha assemblato 3,3 milioni di veicoli con una riduzione del 44 per cento rispetto a 11 anni prima e del 29 rispetto al 2019, cioè ad appena 24 mesi di distanza. La Polonia ha toccato il 50 per cento, la Francia ha sfiorato il 40. Per contro è aumentato il fatturato. Questo perché si è rinunciato a produrre vetture piccole a vantaggio del segmento premium che è più redditizio e dunque garantisce margini di guadagno molto più ampi».
La Fiom denuncia: l’Italia è passata dal produrre 1,5 milioni di veicoli alla fine degli anni ’90 ai 473 mila del 2022. E’ così?
«Nel decennio il nostro Paese ha avuto un impatto meno forte rispetto per esempio alla Germania. Ma partiva da altri numeri. Nel 2010 si producevano 838 mila veicoli e l’anno scorso si è scesi a 796 mila con un calo del 13%. Ma quel che salta all’occhio nel raffronto tra 2010 e 2019 è il dato positivo a differenza di buona parte degli altri Paesi: +9,2 con una produzione che ha superato quota 900 mila. E anche gli ultimi dati sono positivi sotto la spinta dell’investimento nell’elettrico».
La partita sull’elettrico nell’Unione Europea è chiusa definitivamente o potrà ancora essere riaperta, magari già nel 2026 quando ci sarà una prima verifica su qual è la risposta del mercato?
«In questi giorni abbiamo visto una prima modifica, con la decisione di autorizzare i motori endotermici anche dopo il 2035 a patto che siano alimentati da carburanti sintetici. Un segnale, forse, che l’accordo non è definitivo. Potrebbero esserci ancora margini di manovra. Dipende da come ragiona la politica. L’ultima parola spetta a lei. Certo l’indecisione non fa bene agli investimenti».
Secondo lei è stata la scelta migliore quella di puntare tutto sull’elettrico anziché su una transizione ecologica neutra che consentisse l’uso di altri carburanti, compresi quelli bio sui quali l’Italia sta investendo molto?
«E’ difficile giudicare, ci sono pareri differenti. Ma ripeto quel che è certo è che l’indecisione non giova all’industria. Fatta una scelta, qualunque sia, è meglio andare avanti senza ripensamenti».
Professore, Federmeccanica e sindacati dicono che all’Italia serva una politica nazionale, invocando un piano preciso per salvare l’automotive. Concorda?
«Sì, ci vuole una politica che garantisca il mantenimento dei livelli produttivi nel settore della fornitura ma non solo. Bisognerebbe lavorare anche a possibili nuovi insediamenti in Italia per non rimanere legati a un unico produttore».
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