La metà degli italiani non dichiara alcun reddito e, tra chi versa, il 12,99% dei contribuenti (con redditi dai 35mila euro in su) paga il 59,95% delle imposte sui redditi delle persone fisiche. Se questo quadro rispecchiasse la realtà vera del Paese, saremmo al cospetto di un’Italia alla fame, che gira a piedi sperando di non consumare le scarpe, ma non sapendo bene dove andare visto che non ha un soldo in tasca. Un Paese in cui vige il principio che più tasse paghi (il 4,58% dei contribuenti paga il 38,05% dell’Irpef), meno servizi ricevi e dove il sommerso e l’evasione continuano a imperare con un risultato certo finale: impoverire sempre più il ceto medio che poi è quello che oggi versa il 60% delle imposte. Perché non cambiare paradigma e insistere sulla strada dei fringe benefit e del welfare aziendale?
I redditi crescono meno dell’inflazione
I dati emergono dall’ultimo Osservatorio del Centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali sui redditi dichiarati nel 2021 (e quindi relativi al 2020) secondo cui negli ultimi 13 anni i redditi dichiarati sono cresciuti del 10% circa, meno dell’inflazione ed enormemente meno della spesa pubblica e, in particolare, di quella assistenziale aumentata del 98% e arrivata a toccare già nel 2020 un valore pericolosamente vicino a quello del gettito dell’Irpef ordinaria.«Bastano questi pochi dati per capire come si sia davanti a un onere molto gravoso da sostenere – ha commentato Alberto Brambilla, curatore della ricerca - e che lascia ad altre funzioni statali, indispensabili allo sviluppo del Paese (come scuola, infrastrutture, investimenti in capitale e così via), solo le residuali imposte indirette, le accise e la strada del debito. Debito che ogni anno aumenta spaventosamente nella totale indifferenza generale, e infatti siamo il fanalino di coda in Europa per occupazione e produttività».
Il totale dei redditi prodotti nel 2020 e dichiarati nel 2021 ai fini Irpef è ammontato a 865,074 miliardi, per un gettito di 164,36 miliardi, in calo del 4,75% rispetto all’anno precedente. Diminuiscono anche i dichiaranti (41.180.529 su 59.641.488 cittadini residenti) e coloro che versano almeno 1 euro di Irpef, che scendono a quota 30.327.388, vale a dire poco più della metà degli italiani; peraltro, il 79,2% degli italiani dichiara redditi fino a 29mila euro e versa solo il 27,57% di tutta l’Irpef, e quindi un’imposta neppure sufficiente a coprire la spesa per le principali funzioni di welfare. Infatti, come rilevato dall’Osservatorio, nel 2020 sono statati necessari 122,72 miliardi per la spesa sanitaria, 144,76 per l’assistenza sociale e altri 11,3 per il welfare degli enti locali. Un conto totale di 278,78 miliardi che, in assenza di tasse di scopo viene finanziato attingendo fiscalità generale.
Il 79% dei contribuenti versa il 27,5% dell’Irpef
Tornando ai redditi degli italiani, almeno a quelli dichiarati, da 0 fino a 7.500 euro lordi si collocano 9.209.590 soggetti (il 22,36% del totale) che pagano in media 22 euro di Irpef l’anno. I contribuenti che dichiarano redditi tra i 7.500 e i 15.000 euro lordi l’anno sono 8.052.960 che pagano una media di 367 euro a testa a fronte, a titolo esemplificativo, di una spesa sanitaria pro capite pari di circa 2.060 euro. Tra 15.000 e 20.000 euro di reddito lordo dichiarato si trovano 5,57 milioni di contribuenti, che pagano un’imposta media annua di 1.852 euro; seguono da 20.001 a 29.000 euro 8.707.798 contribuenti versanti.«Se si sommano tutte le fasce di reddito fino a 29mila euro, si evidenzia – spiega Brambilla - che il 79,2% dei contribuenti italiani versa soltanto il 27,57% di tutta l’Irpef, e probabilmente una percentuale ancora minore delle altre imposte».
Seguono quindi i redditi tra 29.001 e 35mila euro, fascia in cui si collocano 3.217.343 contribuenti, il 7,81% del totale, che pagano un’imposta media annua di 6.377 euro e versano complessivamente il 12,48% delle imposte. A salire, la scomposizione mostra invece quei poco più di 5 milioni di versanti con redditi superiori ai 35mila euro che, nella sostanza, sostengono il peso del finanziamento del nostro welfare state. Più precisamente, esaminando le dichiarazioni a partire dagli scaglioni di reddito più elevato, sopra i 100mila euro, l’Osservatorio individua solo l’1,21% dei contribuenti che, tuttavia, versa il 19,91% delle imposte. Sommando a questi contribuenti anche i titolari di redditi lordi da 55.000 a 100mila euro (che sono 1.385.974, il 3,37% del totale, e pagano il 18,14% del totale delle imposte), si ottiene che il 4,58% dei contribuenti paga il 38,05% dell’Irpef. Includendo infine anche i redditi dai 35.000 ai 55mila euro lordi, risulta infine che il 12,99% paga il 59,95% dell’imposta sui redditi delle persone fisiche.
Oppressione fiscale? Si, ma non per tutti
Sintetizzando, dall’Osservatorio emerge una riduzione del reddito per tutti scaglioni di reddito mentre il carico fiscale, a propria volta calato in valori assoluti, rimane sostanzialmente invariato: insomma, un numero sempre più esiguo di contribuenti paga sempre di più. «Numeri su cui riflettere - ha spiegato il presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali – perché è giusto aiutare chi ha bisogno ma i nostri decisori politici tendono a trascurare come queste percentuali dipendano in buona parte da economia sommersa, evasione fiscale e assenza di controlli adeguati, per le quali primeggiamo in Europa: è davvero credibile che oltre la metà degli italiani viva con meno di 10mila euro lordi l’anno?».
Tra i falsi miti sfatati dalla pubblicazione c’è di riflesso anche quello dell’oppressione fiscale, che vuole (tutti) i cittadini tartassati dal fisco e penalizzati delle eccessive imposte. In pratica, quasi il 100% delle imposte dirette va totalmente a beneficio del 58,06% di popolazione (corrispondente a quanti dichiarano fino 20mila euro). «Un costante trasferimento di ricchezza, sotto forma di servizi gratuiti di cui quest’enorme platea di beneficiari non si rende neppure conto – puntualizza Brambilla – davanti alle ripetute promesse di nuove elargizioni da parte della politica e alla continua minaccia di abolizione delle tax expenditures per i redditi da 35mila euro in su». Redditi, peraltro lordi, e non certo da “ricchi” che scontano però l’italico paradosso secondo il quale più tasse si pagano e meno servizi si ricevono: una progressività occulta e pericolosa, che penalizza quanti contribuiscono regolarmente e incentiva i cittadini a evadere o dichiarare meno così da non rinunciare a prestazioni sociali o altre agevolazioni da parte di Stato, Regioni e comuni. Per il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali resta comunque indubbio che l’effetto del combinato disposto di imposte dirette e indirette renda forse eccessiva l’imposizione fiscale in Italia, ma al tempo stesso occorre lavorare su soluzioni nuove, concretamente calate sulla realtà del Paese e che sappiano superare il fin troppo banalizzante dualismo tra “ricchi” e “poveri”.
Più welfare per alleggerire il peso delle tasse
Se il contrasto di interessi tra clienti e fornitori diretti di beni e servizi potrebbe rivelarsi un ottimo modo per favorire l’emersione e al tempo stesso agevolare le finanze delle famiglie italiane, un maggiore sviluppo del welfare aziendale, insieme alla detassazione di premi, aumenti salariali e straordinari, potrebbe essere la giusta via per ridurre il cosiddetto cuneo fiscale-contributivo a carico dei lavoratori dipendenti in modo equo e sostenibile per le casse dello Stato.«Con l’articolo 23 del cosiddetto decreto Aiuti bis, il governo Draghi ha tracciato la strada, raccolta poi anche dal più recente decreto Aiuti quater, intervenendo per il 2022 su importo e modalità di erogazione delle somme versate dal datore di lavoro ai dipendenti, i cosiddetti fringe benefit. L’estensione di quest'innovazione anche agli anni a venire e una semplificazione dell’iter di accesso al welfare aziendale, il cui eccesso di burocrazia tende oggi a ostacolarne l’utilizzo da parte delle Pmi, potrebbero fare una differenza non di poco conto, stimabile fino al 15% per i redditi fino a 15mila euro e all’8% per quelli da 25mila. Tanto più che queste erogazioni di retribuzione esentasse fanno “perdere” allo Stato solo un’Irpef molto bassa, abbondantemente recuperata con la tassazione diretta e indiretta imposta quando queste somme vengono spese. Per gli autonomi si potrebbero poi prevedere, con la stessa finalità, altre misure compensative come super ammortamenti, esenzione di una frazione di pari importo del reddito: perché non provarci?», conclude Alberto Brambilla.
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