Fautore, tra le altre regioni, della vigorosa ripresa del made in Italy dopo la batosta del Covid e il notevole balzo dei costi delle materie prime e dell’energia, il Veneto si conferma, secondo i dati Istat e Eurostat elaborati da Fondazione Edison, una delle aree economiche più dinamiche d’Italia e d’Europa, in grado non solo di raggiungere nel 2021 i livelli di produttività e valore aggiunto del 2019, ma anche di superarli. Nel periodo 2015-2021 il valore aggiunto industriale del Veneto è cresciuto del 2% medio annuo, staccando la Germania di ben 7,9 punti. E la corsa è continuata nel 2022, se si pensa all’andamento del Pil, cresciuto del 4,2% contro una media nazionale del 3,9%, o al dato dell’export, che, secondo Prometeia, ha registrato nei primi nove mesi dell’anno passato un +17,5% rispetto allo stesso periodo del 2021. A cosa è dovuto il vigore economico veneto, se escludiamo il fisiologico rimbalzo che dopo la pandemia ha coinvolto tutto il Paese?
Le ragioni sono tante e sono diverse rispetto alle motivazioni che hanno caratterizzato la crescita della regione negli anni Ottanta, Novanta e Duemila, quando il mercato domestico ed estero in forte espansione giustificava la corsa soprattutto alla produttività e all’internazionalizzazione. Oggi la dinamica economica del Veneto ha caratteristiche diverse e più evolute. La prima riguarda la maggiore struttura finanziaria, un maggior consolidamento patrimoniale, che, seconde le analisi di Adacta, ha coinvolto moltissime aziende della regione, portando, ad esempio ad un calo del Pfn (indebitamento netto) del 10% e ad una maggiore liquidità, grazie anche all’apporto di strumenti di private equity. La conseguenza diretta sono stati investimenti più mirati alla digitalizzazione, all’ammodernamento delle strutture, all’applicazione dei dettami della sostenibilità come fattori di competitività (bilancio sostenibile, codice etico, formazione interna ai dipendenti, politiche Esg, eccetera). Nel 2022 gli investimenti fissi lordi, secondo il Bollettino socio-economico della Regione, sono saliti dell’11,2%.
I tre fattori di successo
Su questo fronte ha giocato un ruolo importante anche un diverso approccio nei confronti della Borsa, da cui alcune aziende se ne sono andate. «Ma, attenzione – avverte Paolo Gubitta, professore ordinario di Organizzazione aziendale all’Università di Padova e al Cuoa –, non si tratta di un delisting per tornare al passato. Il ragionamento dell’imprenditore è strategico: di fronte ai repentini cambiamenti del mercato, c’è bisogno di rivedere gli assetti del business, oppure il management, o gli investimenti. La Borsa valuta l’azienda ogni tre mesi e, così facendo, fatica a capire i cali di margini o di fatturato e non legge i ragionamenti a lungo termine. Uscire dal listino, invece, dà all’imprenditore la possibilità di portare avanti i progetti di crescita con i tempi giusti e grazie ad un capitale interno più “paziente”».
Il secondo fattore di successo dello sprint economico veneto è da ricercarsi nel modello di network che si sta sempre più affermando: la polarizzazione tra grandi aziende da una parte e piccole e medie dall’altra e il contestuale ruolo di capofila che assumono le grandi di fronte a quello di fornitore locale delle medie e piccole. «La grande impresa veneta non può progredire internalizzando tutte le fasi; ha bisogno di un sistema di Pmi che costituiscano le cosiddette reti locali di fornitura – ancora Gubitta –. Grandi imprese come Sirmax, Texa o Lago sanno competere a livello globale; in scia a queste imprese più grandi, molte piccole hanno saputo avviare processi di apprendimento e di miglioramento, interagendo in maniera matura con modelli di business e logiche di gestione evolute, come la Lean production, la digitalizzazione, la sostenibilità».
Una dinamica che arricchisce il territorio, in cui i grandi “educano” i piccoli e generano protocolli, alimentata sia dalle richieste del mercato, che esige una filiera competente e certificata, sia dal re-shoring della supply chain, resosi necessario dalle turbolenze geopolitiche e economiche degli ultimi anni. Secondo una ricerca condotta dalla Fondazione Nordest per conto di Confindustria Veneto Est, negli ultimi due anni più di un’impresa su tre (il 34,7%) nell’area che comprende Padova, Treviso, Venezia e Rovigo, ha cambiato almeno un fornitore strategico, scegliendone uno più vicino: in Italia nel 58,1% dei casi, fuori dall’Italia, ma più prossimo, per il 16,4% delle imprese.
Gli step successivi sono modelli di business avanzati come quelli adottati, ad esempio, dalla società Alcedo, operatore finanziario indipendente di Treviso, che con Gourmet Italian Food ha raggruppato aziende alimentari sotto l’elemento aggregatore del private equity, dando loro una dimensione competitiva; o da Wedo, la holding veneta che fa capo ai quattro figli di Ettore Doimo, marchio storico dell’arredamento, costituita da 7 società partecipate, che ha come obiettivo strategico lo sviluppo di un piano industriale comune, caratterizzato dalla crescita internazionale e dal cambiamento culturale nel settore dell’arredamento e del design.
Un terzo punto di forza dell’economia veneta risiede nell’essere parte delle filiere internazionali, delle catene globali del valore. Dall’automotive alla chimica, dal food al farmaceutico, dal legno arredo alla meccanica, alla concia, il Veneto esprime player importanti, che hanno saputo in tempo utile fare i cambiamenti necessari, si sono inseriti in modo strutturale nelle catene del valore e hanno espresso velocemente una capacità di reazione. In questo senso vanno, ad esempio, tutte le azioni intraprese in tema di sostenibilità, come la decisiva svolta del Gruppo Mastrotto, azienda vicentina della concia, che ha puntato sull’utilizzo di energia pulita, sulle pelli green, sui bilanci di sostenibilità e sulla qualità della vita aziendale. È proprio il saper essere agganciati alle catene del valore a rassicurare gli imprenditori veneti e farli essere ottimisti.
Enrico Carraro, presidente di Confindustria Veneto, parla in primis nella sua veste di imprenditore alla guida di un big dell’industria regionale – il Gruppo Carraro di Campodarsego (Padova), leader nella produzione di sistemi per la trasmissione di potenza, con sedi produttive in Italia, India, Argentina e Cina – che nel 2022 ha registrato 760 milioni di euro di ricavi, in crescita del 20% rispetto al 2021, con 60 milioni di margine operativo lordo: «Vedo l’immediato futuro in modo positivo. Noi non abbiamo alcun rallentamento per il 2023 in termini di commesse e prevediamo un aumento di fatturato, in attesa di un 2024 che dovrebbe essere di nuovo trainante». Prometeia conferma, prevedendo per il 2023 una leggera crescita per il Pil veneto dello 0,4%.
Più in generale, Carraro, nella sua veste di presidente di Confindustria Veneto, vede un andamento migliore delle aspettative, ma con un’incognita di fondo. «Le prime valutazioni dell’anno del Centro Studi di Confindustria fanno ben sperare, non parlano di una recessione profonda, come ci si immaginava. Per quanto riguarda il Veneto, la presenza di numerose aziende della subfornitura e la diversificazione di prodotto ci aiuterà, ad esempio, in settori strategici come l’automotive, interessato dai cambiamenti che riguardano l’elettrificazione. Quello che mi preoccupa, e che costituirà il grande problema che avremo nei prossimi anni, sarà la disponibilità della manodopera. Già oggi abbiamo difficoltà a trovare operatori di qualsiasi tipo, non parlo solo di scienziati o ingegneri. Con l’automazione sopperiremo in parte a queste mancanze, ma solo in parte. Finché non finirà questo calo demografico, e temo che per i prossimi trent’anni non finirà, è necessario lavorare all’accesso di una immigrazione regolamentata e composta perché avremo bisogno nei prossimi anni di avvicinare sempre più i lavoratori stranieri alle nostre imprese. Se vogliamo crescere, dobbiamo anche pensare con chi e con quali collaboratori vogliamo crescere».
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