D’accordo: la manifattura, con la sua rete di imprese, grandi e piccole. E poi l’agricoltura, con i suoi campioni da export nel pianeta del food. Aggiungiamo la logistica, che tutto muove, usando autostrade digitali e quelle d’asfalto. E il turismo? Si può dimenticare il suo decisivo apporto al Pil? Certo che no. Ma prima di tutto viene la coesione sociale. Se manca quella, crollano anche tutte le altre piattaforme. Parola di Aldo Bonomi, ricercatore e economista, ma soprattutto il “signore dei microcosmi” attraverso i quali ha raccontato a lungo sulle pagine del Sole 24 ore la metamorfosi dell’Italia che produce. Un viaggio che prosegue, anche in libreria, con l’ultimo saggio: “Oltre le mura dell’impresa. Vivere, abitare, lavorare nelle piattaforme territoriali” edito da DeriveApprodi di Bologna.
Professore, per raccontare dell’Italia che va, che ha nell’Emilia Romagna una regione regina in Europa grazie alla diversificazione e nel Veneto una terra che cambia pelle passando dal “piccolo e bello” a un sistema più strutturato come quello della filiera, dobbiamo raccontare le piattaforme. Che cosa sono?
«Innanzitutto non sono dei distretti più grandi, ma hanno dimensioni territoriali più vaste, capaci di competere nella globalizzazione, fonti di grandi processi e grandi cambiamenti. Il concetto è preso a prestito dall’economia digitale e applicato ai territori dell’economia dei diversi Nord. È fatta di comuni polvere, come quelli che costellano l’alto Appenino, le vallate bergamasche e bresciane, gli altipiani veneti. Di città distretto, come per esempio Sassuolo e di città medie come Parma. Fino ad arrivare alla città metropolitana, per esempio Bologna. Un’immagine di territorio che propone inedite forme di convivenza e pluri-identità, nuove istituzioni e forme di rappresentanza. Questo per dire che una piattaforma non è solo una dimensione produttiva ma si allarga al pianeta dei servizi e alla qualità della vita, prende in considerazione autonomie funzionali come le università e le camere di commercio».
Una sorta di “almanacco dei territori” nelle viscere produttive del Nord che lei ha riassunto in una parola che rimanda più all’amore che all’economica: Lover. Ma che innanzitutto identifica una macroregione. Ce la spiega?
«Lover è una sorta di acronimo per riassumere le tre piattaforme per eccellenza. La Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna. Una macroregione da studiare e raccontare. A cominciare proprio dalla Lombardia, che mette insieme reti antiche e moderne. E tra quest’ultime includo gli aeroporti, da Malpensa fino a Montichiari di Brescia, un nodo importante della rete. E la Pedemontana una catena di montaggio a cielo aperto, come quella veneta o come lo è la via Emilia. Ma nulla a che vedere con la tradizione fordista. Qui la logica dell’industrializzazione è andata oltre, siamo di fronte a una riorganizzazione delle filiere della produzione di beni e servizi secondo nuovi modelli».
Ecco, ma per esempio, la piattaforma Emilia grazie a quali carte è capace di competere con i maggiori distretti manifatturieri europei?
«Si va dal biomedicale al packaging, all’automotive. Ma attenzione non si può pensare solo al manifatturiero. Dobbiamo considerare il peso dell’agricoltura con la Food valley che da Parma si allunga a Modena e Reggio ed è davvero un campione dell’export. E della logistica con un colosso come Amazon a Piacenza. Oppure il megacomputer che ha fatto di Bologna la capitale europea del supercalcolo. Ecco perché non si può parlare di piattaforma limitandoci al manifatturiero. E dietro questo successo ha avuto il suo peso il passato, quello di una terra che da sempre ha creduto in una forma di coesione sociale quale la cooperazione. Ed è stato un buon antidoto in tempi di globalizzazione. Aggiungo che senza coesione sociale non c’è competizione. E’ ciò che innerva le piattaforme, aggiunge qualità».
Lei accanto alle piattaforme, parla dei flussi dell’ipermodernità. Come impattano questi strumenti della globalizzazione – possiamo chiamarli così? – sui territori, come li modificano?
«Le faccio un esempio. Anche l’alta velocità è un flusso. E pensi la fermata di Reggio Emilia come ha impattato sull’area che da Milano si estende a Bologna. Ma anche le migrazioni sono un flusso. Destinato a incidere, soprattutto in tempi di crisi demografica. E poi la finanza. Altro elemento di grande impatto. Perfino il fiume Po a lungo considerato come un dato della natura oggi che la siccità lo riduce a un rigagnolo lo valutiamo per quel che è: un flusso da cui dipende il futuro dell’agricoltura più fiorente d’Italia e tutta la filiera che gli ruota attorno».
In questo Nord sempre più locomotiva dell’Italia manca un pezzo: il Piemonte. Che in molti ormai identificano, dati alla mano, nel Sud del Nord. Concorda?
«Un giudizio troppo tranchant. Il vero problema è che Torino sta vivendo un cambiamento feroce cominciato con l’entrata in crisi del fordismo. Un cambiamento che sta vivendo anche il Nord Est che prova a uscire da un altro modello, il post fordismo selvaggio per approdare a un sistema più solido, costruito attorno a un sistema non solo virtuoso ma anche molto selettivo quale quello della filiera. Però con un diverso impatto sui numeri della sua economia. Che non ha smesso di correre. Torino invece dopo aver visto svanire nel secolo scorso il progetto Gemito che contava di fare del triangolo industriale con Genova e Milano il cuore pulsante dell’Italia deve ora connettersi alle piattaforme, aprirsi alle reti lunghe. Ma ha strumenti per farcela. A cominciare dal Politecnico, uno di quei luoghi dei saperi decisivo. Non solo, nella regione, ci sono aree come quella di Cuneo che hanno saputo crescere, puntando su nuovi asset. Come il turismo nelle Langhe o il distretto del vino, trasformando Barolo e Barbaresco in campioni dell’export».
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