Quasi tutti pensano che più cresce l’economia (come è misurata dal Pil), più crescono i corsi delle azioni (come misurati dagli indici). Se l’economia cresce, cresce la domanda e quindi i profitti e quindi i corsi delle azioni. Il ragionamento porta a preferire i paesi emergenti (che crescono molto) a quelli emersi (che crescono poco). Dunque, alla fine si ha la relazione crescita=azioni. Per fortuna i mercati finanziari esistono da un secolo ed esistono le statistiche. Sarà vero quanto appena detto? No, perché non esiste una relazione significativa stabile ed elevata fra crescita e azioni. Questa risultanza statistica è controintuitiva e mette in crisi un «luogo comune». E porta a considerazioni interessanti.


La relazione si esprime come percentuale. Quanto più è positiva ed elevata, tanto maggiore è la relazione. Una relazione pari al 100% potremmo definirla «simbiotica». Si prendono perciò i corsi azionari degli ultimi centocinque anni di tutti i paesi emersi ed emergenti di cui si hanno le statistiche, e si fanno i conti. A dieci anni la relazione fra crescita del Pil e crescita dei prezzi delle azioni è pari a 0,07 (ossia non c'è). A quindici anni è pari a –0,12 (ossia non c'è). A venti anni è pari a zero. A venticinque anni è pari a –0,25 (ossia, per quel poco che c’è, è negativa).

Questi sono gli orizzonti temporali normali degli investitori. Se però uno volesse lasciare i propri denari a figli, nipoti e pronipoti che cosa succederebbe? Dopo quarantadue anni la relazione è pari a 0,43, ma a quarantatrè anni passa improvvisamente a zero. A centocinque anni è pari a 0,33. Dopo venticinque anni e fino ai centocinque anni si ha una relazione poco stabile, che diventa abbastanza significativa molto, ma molto avanti nel tempo.

Noi però sappiamo che i prezzi delle azioni sono saliti, come sappiamo che il Pil è salito. Come si spiega allora la mancanza di relazione? Il corso delle azioni è definito dal flusso di utili scontato per il rendimento delle obbligazioni. Dunque nella relazione fra il prezzo (se alto o basso) e i fondamentali (intesi come variazione degli utili e dei rendimenti) risiede il mistero del prezzo delle azioni. La crescita del Pil non porta di per sé utili maggiori e rendimenti minori, e inoltre si deve tener conto dei prezzi di partenza delle azioni, se alti o bassi. Se si considera pure che i prezzi delle azioni si discostano parecchio dai fondamentali e anche per periodi temporali molto lunghi, non possiamo meravigliarci di questa mancanza di relazione fra crescita e azioni.

I paesi che crescono poco (come Pil) hanno solitamente le azioni meno vivaci (ossia, si formano meno «ondate di entusiasmo») di quelli che crescono molto. Inoltre, hanno solitamente dei rendimenti delle obbligazioni più bassi. Vale a dire, hanno un rapporto fra prezzo e fondamentali relativamente basso. Se si dispongono i paesi emersi ed emergenti degli ultimi centocinque anni secondo il tasso di crescita, si scopre che quelli che sono cresciuti meno hanno avuto le azioni che sono cresciute di più. I paesi «lumaca» hanno registrato, infatti, una crescita delle azioni dell’8% annuo, i paesi «lepre» del 5%. Una differenza di variazione annua del 3% è un dato enorme su un arco temporale secolare.

I conti sono quelli di Elroy Dimson, Paul Marsh e Mike Staunton della London Business School, e sono discussi in Investment Strategy Group, Goldman Sachs, Stay the Course, gennaio 2011.

La quale Goldman Sachs di suo mostra i conti sulla Cina. Negli ultimi quindici anni la Cina è cresciuta in media del 10,4%, mentre gli Stati Uniti sono cresciuti in media del 2,6%. Il Pil cinese – pur aumentato in modo esponenziale – non ha prodotto (proprio così) alcuna crescita media annua degli utili per azione. Anche questo è controintuitivo. Ma come, una crescita pari a zero? Sì, se si tiene conto dell’inflazione e delle emissioni di nuove azioni e non degli utili aggregati nominali. Negli Stati Uniti gli utili per azione depurati dall’inflazione sono, invece, cresciuti del 5,4%, ossia al doppio del Pil.

Il risultato? La borsa cinese – misurata con gli indici che tengono conto solo delle azioni a disposizione dei non cinesi e togliendo l’inflazione – è flessa, mentre quella statunitense è salita. Inoltre, la borsa cinese, che è andata molto male, ha pure avuto una volatilità quasi tripla rispetto a quella statunitense. Ossia, ha reso nulla, essendo molto più rischiosa.

Esposti i numeri altrui, facciamo delle considerazioni. La Cina è una gran storia di industrializzazione trainata dalle esportazioni e dagli investimenti in infrastrutture, ma è stata negli ultimi quindici anni un pessimo affare per gli investitori non cinesi in azioni cinesi. Gli effetti della storia della Cina si sono probabilmente – diciamo così, perché non abbiamo trovato le statistiche – visti di più nei prezzi delle azioni delle imprese che hanno dislocato gli impianti in Cina.

Naturalmente, il futuro non è necessariamente eguale al passato, e quindi le cose possono cambiare. Esiste anche il cosiddetto sottoperiodo. In alcuni momenti le azioni cinesi hanno reso molto di più, in altri molto di meno. Si tratta di capire perché sorge un ciclo favorevole e provare a sfruttarlo. Ma le statistiche esposte fanno riflettere.

Volendo essere maliziosi, si potrebbe dire che le azioni cinesi non sono state comprate dai non cinesi secondo una logica «capitalistica» (ossia sulla base degli utili reali per azione – la crescita intensiva o di efficienza), ma secondo una logica «socialista» (ossia sulla base della crescita degli utili nominali aggregati – la crescita estensiva, senza tener conto dell’efficienza). Alla fine, è arrivata la punizione. Infatti, le azioni cinesi, misurate appropriatamente, non sono alla lunga cresciute. Un esempio di «vita vissuta». Conosco chi ha investito in Cina perché ci sarebbero state le Olimpiadi. Un ragionamento socialista esemplare: non ha, infatti, pensato alla redditività per azione delle Olimpiadi, ma al volume della spesa in infrastrutture. Il Gosudarstvenny Komitet po Planirovaniy – il famoso Gosplan – alberga nell’inconscio.