Pubblichiamo lo scenario per il 2010. Il testo è impegnativo. Vi sono delle cose già scritte nel sito, altre pubblicate da altre parti, altre completamente nuove. Esso è diviso in sette parti. 1) Dove sta il problema; 2) Come si è arrivati alla crisi; 3) Le politiche monetarie e l’assorbimento dei titoli; 4) La concentrazione delle aspettative di crescita degli utili; 5) Tre scenari; 6) Le ragioni dello scetticismo sulla ripresa a “V”; 7) Appendice: l’importanza del saldo primario: l’esperienza italiana. Si possono saltare per una lettura veloce le parti 2 e 7.


1- Per arrivare alla giugulare del problema. I deficit pubblici – cresciuti per contenere la crisi - difficilmente saranno messi sotto controllo.

La crisi si è riverberata sui bilanci degli stati. E qui si annidano molti pericoli. La crisi espande i deficit pubblici, perché aumentano le uscite statali (per esempio i trasferimenti ai disoccupati), mentre le entrate flettono (il gettito delle imposte si riduce). Il primo blocco di dati – dell’OECD calcolati a giugno 2009 – mostra il deficit effettivo (il deficit pubblico corrente diviso per il Pil corrente). Il secondo blocco mostra il deficit corretto dagli effetti del ciclo (il deficit pubblico è prima corretto per gli effetti del ciclo e poi diviso per il Pil che si avrebbe con la piena occupazione). Il terzo blocco di dati mostra il deficit prima del pagamento degli interessi, corretto dagli effetti del ciclo (il saldo primario corretto è poi diviso per il Pil che si avrebbe con la piena occupazione). Il quarto blocco mostra il debito pubblico lordo (i debiti senza sottrarre il patrimonio pubblico).

La crescita del deficit pubblico non è un problema fintanto che non è emesso debito per pagare gli interessi. Dunque è il terzo blocco di dati che rileva. Un’impresa che abbia un margine operativo lordo positivo prima del pagamento degli interessi è più sana di una che abbia un margine operativo lordo negativo prima del pagamento degli interessi. Ovvio. Come farà, infatti, l’impresa che ha un margine operativo lordo negativo a coprire le perdite? Indebitandosi. E poi, come farà a pagare gli interessi sul debito in essere? Aumentando ancora il debito. Le tabelle mostrano come gli Stati Uniti e il Giappone abbiano, a differenza dell’Europa dell’euro (che non mostrata nelle tabelle), un deficit significativo prima di pagare gli interessi – l’Europa dell’euro, invece, è in pareggio. Ossia, essi sono i paesi messi peggio.

  
Stati Uniti 2007 2008 2009 2010
Deficit effettivo -2,9 -5,9 -10,2 -11,2
Deficit corrente -3,5 -5,8 -7,7 -8,5
Saldo primario -1,4 -3,8 -6,2 -6,8
Debito pubblico 62,9 71,1 87,4 97,5
  
Giappone 2007 2008 2009 2010
Deficit effettivo -2,5 -2,7 -7,8 -8,7
Deficit corrente -3,8 -4,3 -5,9 -6,0
Saldo primario -3,1 -3,5 -5,0 -4,7
Debito pubblico 167,1 172,1 189,6 199,8
 
Nota tecnica – I numeri storici (2007, 2008) tengono conto di due aggiustamenti: 1) si tolgono gli effetti delle entrate una tantum e dunque il numeratore – il deficit – diventa più grande; 2) si depura la crescita del Pil dagli effetti di picco, insomma si usa il trend, e dunque il denominatore diventa più piccolo. Ergo, rispetto ai numeri come si presentano nella prima riga senza depurazioni di deficit e di Pil, abbiamo nella seconda riga un deficit maggiore e un Pil minore. Da qui i numeri negativi maggiori nella seconda riga, per il 2007 e il 2008. Come si vede, per il 2009 e il 2010 tutto «torna in ordine». Sia il numeratore (maggiori entrate e minori spese = minor deficit) sia il denominatore (Pil da piena occupazione = Pil più grosso) sono regolarmente migliori di quelli della prima riga.


Le famiglie statunitensi nei prossimi anni ridurranno i consumi, e non saranno i tassi a breve e a lungo termine – per quanto bassi – a fermare la spinta a contenere il debito. La leva finanziaria è, infatti, troppo elevata. Per bilanciare la caduta dei consumi privati – ossia per evitare che l’economia sì avviti – si espande il deficit pubblico. Solo che lo si espande in maniera pericolosa, ossia si ha un deficit prima del pagamento degli interessi. Gli Stati Uniti debbono importare capitali dal resto del mondo. Chi presta agli Stati Uniti può quindi chiedere rendimenti maggiori per sottoscrivere le nuove obbligazioni.

Il costo del debito pubblico può perciò salire e la politica di bilanciare lo «sciopero dei consumatori» con la maggior spesa pubblica rischia di non funzionare.

Il debito che essi hanno prodotto fino ad oggi è stato assorbito: 1) secondo i paesi - dalle banche di credito ordinario, dalle banche centrali, dalle banche centrali di paesi terzi; 2) dal pubblico dei risparmiatori, che nel 2009 nei paesi emersi è stato acquirente netto di debito pubblico e privato, ma non di azioni.

Le banche centrali estere comprano il debito statunitense, ma meno che nel passato :

http://1.bp.blogspot.com/_H2DePAZe2gA/SzMAjNU3gMI/AAAAAAAAK5Y/EAcIDwmaebg/s1600-h/foreignust121909.png

Gli acquisti delle famiglie statunitensi:

http://4.bp.blogspot.com/_H2DePAZe2gA/SzMC2Df6lzI/AAAAAAAAK5g/iWM0J4GoaKk/s1600-h/flowfunds.jpg

L'offerta di reddito fisso e la sua domanda:

http://www.zerohedge.com/sites/default/files/images/user5/imageroot/volcker/2010%20FI%20Flow.jpg

In Europa la situazione è simile:

http://ftalphaville.ft.com/blog/2009/12/08/87711/how-do-you-say-vicious-circle-in-greek/


 
2- Come si è arrivati alla crisi.
 

Nel 2006 nell’industria finanziaria tutti sapevano che il debito estero degli Stati Uniti così come il debito delle famiglie statunitensi non poteva “andare avanti all’infinito” (1).

Allo stesso tempo, seppure scettici per il lungo termine, tutti erano estasiati per quanto le cose nel frattempo stavano “andando bene”. Le borse continuavano a salire. I rendimenti sul debito pubblico erano stabili. Insomma, tutto sembrava procedere, all’orizzonte si vedevano le nubi, ma queste non avevano la conformazione della tempesta. L’industria finanziaria – di suo - andava “a gonfie vele”. I profitti erano ricchi ed i redditi dei banchieri più “brillanti” molto ricchi.

Tre anni dopo, si cerca ancora di uscire da una crisi che non ha eguali dal secondo dopoguerra. La crisi è arrivata improvvisamente, nella primavera estate del 2007, ma allora ai più non sembrava molto grave. Infatti, ancora nell’autunno del 2007, le borse erano giunte ai massimi storici. Da allora fino alla primavera del 2009 si è avuta solo una caduta. Prestigiose banche d’affari in fallimento, salvataggi privati e pubblici, e via dicendo.

I lungimiranti – dopo lo scoppio della crisi si è naturalmente scoperto che erano la maggioranza – avrebbero anche potuto scommettere contro “le magnifiche sorti e progressive” dei mercati finanziari, ossia, se fossero stati coerenti, avrebbero potuto farsi prestare i titoli e venderli. Poi li avrebbero ricomprati ad un prezzo inferiore, lucrando la differenza.

Se in molti fossero andati – come si dice in gergo - “scoperti”, ecco i prezzi non sarebbero saliti tanto, e dunque la crisi non sarebbe stata altrettanto grave. Dunque “i lungimiranti” non hanno agito, lasciando il mercato nelle mani degli “entusiasti”.

Incoerenti o impossibilitati ad agire? Scommettere contro i mercati stabilmente in salita è molto pericoloso. Se uno vende un titolo preso a prestito che vale 10 e questo va a zero, ha guadagnato 10. Se uno vende un titolo preso a prestito a 10 e questo va a 100, ha perso 90. Se per qualche tempo la strategia non funziona e si manifestano delle perdite, il gestore, che - lungimirante - ha scommesso contro i mercati, vede il patrimonio affidatogli ridursi per effetto dei riscatti della clientela. E’ quindi molto più facile che con un mercato stabilmente in ascesa quasi tutti decidano di guadagnare “andando lunghi”, ossia comprando i titoli per tenerli.

Finisce così che non si crea un’opposizione nel parlamento dei prezzi in salita. Si crea piuttosto un sistema a partito unico in cui tutti fanno le stesse cose, anche quelli che “non ci credono”. Se tutti credono alle stesse cose, allora i prezzi salgono, e dunque si lucrano senza rischi dei bonus cospicui. Conveniva dunque non essere originali. Si potrebbe obiettare che si doveva però – anche nella razionalità del conformismo - tenere conto del rischio. E qui abbiamo una seconda spiegazione – dopo quella che nessuno osava scommettere contro i mercati in ascesa - del perché la crisi ha preso tutti alla sprovvista.

I sistemi di controllo del rischio non hanno tenuto conto degli eventi a bassa probabilità, ma capaci di effetti devastanti. Un esempio di evento a bassa probabilità, ma capace di effetti devastanti è l’attacco alle Torri Gemelle. Dopo un periodo di prolungata stabilità, come quello durato dal 2002 al 2006, si era finito con il pensare che ormai ci fosse una riduzione permanente del rischio. Si pensava in questo modo, anche perché così si potevano prendere, credendo che fosse “scientifico”, dei rischi maggiori, contando sul realismo delle distribuzioni di probabilità con “code sottili”, quelle dove la probabilità che accada qualche cosa di grave è molto remota.

Tutto questo – il conformismo unito all’ingenuità nel controllo del rischio - non basta a spiegare la crisi. Si deve anche capire perché le obbligazioni con “in pancia” i mutui ipotecari abbiano combinato un tale disastro.

Non si possono studiare i bilanci degli emittenti titoli in modo serio ed omogeneo, senza incorrere in spese immense. Conviene che qualcuno li studi, e che ne studi molti per diversificare i portafogli. L’investitore poi ha bisogno di un voto che dia intelligenza del rischio. Questa è la logica delle agenzie di rating. Ma queste ultime di che cosa vivono? Non potendo non diffondere i risultati delle analisi, le obbligazioni, infatti, sono comprate solo se hanno un voto, finisce che nessuno le paga. L’informazione di chi produce rating non riesce a farsi pagare, a meno che non la paghi l’emittente titoli, che così crea il mercato per la propria offerta.

L’emittente titoli pagherà volentieri la società di rating che lo giudica ottimo, piuttosto che quella che lo giudica medio. Si forma un’asta inefficiente, perché alla fine è premiato chi dispensa i risultati più generosi. Come le università larghe nei voti, che trovano sempre degli studenti disposti a sapere meno in cambio di uno sforzo minore.

La gran parte delle emissioni di obbligazioni con “in pancia” i mutui aveva “i voti molto alti”, e questo bastava perché finissero nei portafogli degli investitori. Per chiudere con l’esempio, le imprese alla fine hanno assunto gli studenti meno preparati, credendo che fossero dei “fulmini”, perché a loro bastava guardare il voto di laurea.

Tutto ciò non avveniva in vitro. Prima della crisi, a fronte di una consistente crescita dell’economia mondiale, abbiamo avuto una flessione dei rendimenti e dei tassi. Ma una maggior crescita non avrebbe dovuto alzare il rendimento ed il tasso di equilibrio? Tentiamo una spiegazione dell’anomalia (2).
 
Il ragionamento è: disponiamo di valori medi, calcolati su un arco temporale sufficientemente lungo, che rappresentano l’andamento normale delle economie: per esempio un determinato tasso di crescita, un determinato tasso di risparmio. Verifichiamo se negli ultimi tempi i valori puntuali sono normali, ossia si avvicinano alle medie, o anomali, ossia molto distanti dalle medie. La crescita dell’economia mondiale (al netto dell’inflazione) nel periodo 1990-2004 è stata in media pari al 3,4%. Nel 2005 è pari al 5%. La differenza c’è: Anomalia 1. Il prezzo del petrolio (al netto dell’inflazione) nel periodo 1990-2004 è stato in media di 26,3 dollari al barile. Nel 2005 si è attestato sui 49,1 dollari al barile. La differenza c’è: Anomalia 2. Il rendimento delle obbligazioni decennali dei paesi G3 (Stati Uniti, Giappone e Germania), sempre al netto dell’inflazione, nel periodo 1990-2004 è stato pari in media al 3,5%. Nel 2005 è sceso all’1,6%. La differenza c’è: Anomalia 3. Il risparmio (dato dal reddito meno i consumi) delle famiglie statunitensi in rapporto al prodotto interno lordo nel periodo 1990-2004 è stato in media pari al 6,1%. Nel 2005 ruota intorno allo zero. La differenza c’è: Anomalia 4. Il risparmio delle imprese statunitensi (dato dalla somma di utili e ammortamenti meno gli investimenti) in rapporto al prodotto interno lordo nel periodo 1990-2004 è stato in media intorno allo zero. Nel 2005 è aumentato all’1,3%. La differenza c’è: Anomalia 5. La somma delle economie in disavanzo (cioè le economie con bilance dei pagamenti correnti negative) sul complesso delle economie mondiali nel periodo 1990-2004 è stata pari all’1,6% annuo. Nel 2005 è stata pari al 2,8%. La differenza c’è: Anomalia 6. 


Ecco la spiegazione in forma compatta: l’industrializzazione asiatica ha incrementato la crescita dell’economia mondiale (Anomalia 1), generando uno shock nei prezzi delle materie prime (Anomalia 2). I paesi asiatici hanno prodotto, grazie al basso costo del lavoro, un’ondata discendente dei prezzi dei beni industriali; la discesa dei prezzi dei beni industriali ha schiacciato l’inflazione. Poiché l’inflazione si è ridotta in maniera strutturale, si è ridotto anche il rischio legato alla sua imprevedibilità; il premio per il rischio è diminuito, comportando la riduzione del rendimento reale delle obbligazioni (Anomalia 3). Le famiglie americane, grazie sia alla maggior crescita dell’economia (che determina la disponibilità di una quota maggiore di reddito) sia ai bassi rendimenti delle obbligazioni (che riducono il costo dei mutui ipotecari), hanno accresciuto i consumi e ridotto i risparmi (Anomalia 4). Le imprese hanno investito meno sia per effetto dei sovra investimenti degli anni Novanta (che hanno generato capacità produttiva in eccesso), sia per il minor costo dei beni capitali (effetto delle innovazioni informatiche), sia perché molti investimenti sono stati indirizzati in Asia. Poiché le imprese hanno devoluto una quota inferiore del proprio reddito (utili e ammortamenti) agli investimenti, il loro risparmio è aumentato (Anomalia 5). Le economie asiatiche esportano verso gli Stati Uniti più di quanto importino (generando il disavanzo americano), poi comprano le obbligazioni statunitensi per mantenere il cambio. Così facendo contribuiscono a tenere bassi i rendimenti (Anomalia 3). Esse, infine, finanziano e quindi accrescono e mantengono il disavanzo americano per forzare la propria crescita industriale (Anomalia 6). Questo è stato il “circolo virtuoso” della crescita fino al 2007.


Andando ancora più in profondità (3). 

“Tutti sappiamo che le banche hanno operato con una leva – il rapporto fra impieghi e mezzi propri - eccessiva, così come sappiamo che chi dava i giudizi di merito sulla qualità delle obbligazioni - le agenzie di rating - ha ignorato il rischio. Le banche centrali hanno evitato di assumersi le proprie responsabilità lasciando alle agenzie di rating il giudizio di merito sul rischio, ed hanno anche permesso alle banche di avere una leva eccessiva. Centinaia, se non migliaia d’analisi, sono state pubblicate proprio su queste questioni. La domanda che emerge è: “Perché mai è accaduto tutto ciò?”. La risposta che di norma è data: “Le banche si sono fatte prendere dall’avidità!”. 


Quest’ultimo è un argomento assai modesto per essere una risposta davvero credibile. Le banche sono sempre avide! Perché mai – proviamo a porre la domanda sul binario giusto - le banche hanno manifestato la propria “connaturata avidità” comprando migliaia di miliardi di dollari di prodotti strutturati - una combinazione di diverse attività finanziarie in un unico prodotto - contenenti i mutui sub prime - i mutui erogati alla clientela più rischiosa, i junk bond - le obbligazioni emesse dalle imprese più a rischio, i mutui ipotecari sugli immobili commerciali di dubbio valore, e via dicendo? Perché mai l’industria finanziaria ha incominciato - nel 2005 - a gettare al vento ogni cautela e ad impegnare il proprio talento nell’impachettare dei “rifiuti tossici” dentro delle attività finanziarie supposte sane, che, immancabilmente, si sono poi rivelate pericolose ?   


Chiunque abbia lavorato nell’industria finanziaria intorno alla metà del decennio in corso conosce la risposta: il rendimento degli investimenti era collassato dappertutto. Era diventato perciò impossibile ottenere un rendimento sulle attività finanziarie di maggior qualità - la base dei portafogli degli investitori - che - in prospettiva - fosse maggiore del costo del loro finanziamento, ossia maggiore del tasso d’interesse sul mercato interbancario.  


I mutui ipotecari sub prime sono diventati popolari, perché il rendimento su quelli di qualità – i mutui ipotecari prime – era collassato. La cartolarizzazione – il mettere insieme più attività che sono vendute in forma d’obbligazione - è diventata un’espressione ormai così abusata che spesso ci si dimentica che fu proprio la cartolarizzazione dei mutui ipotecari di maggior qualità - con la garanzia implicita del governo federale - una delle innovazioni capaci di promuovere la grand’espansione dal 1984 fino al 2008. Le agenzie federali garantivano i mutui - se accesi con una quota elevata del valore degli immobili pagata in anticipo e se provvisti di una documentazione adeguata sul merito di credito dei mutuatari medesimi. I molti mutui ipotecari erano impacchettati e venduti in forma di obbligazione.

 
Questo rendeva facile a una banca dell’Ohio che aveva molti depositi e pochi crediti comprare i mutui dell’Arizona, che, al contrario, aveva pochi depositi e molti crediti. Questo sistema facilitò l’incontro fra risparmiatori e debitori delle diverse regioni, prima negli Stati Uniti e poi nel resto del mondo. Gli statunitensi possono estinguere il mutuo anticipatamente, ed anche senza penali, e questo avviene quando i tassi di interesse scendono. Il rendimento atteso dei mutui impacchettati richiede di conseguenza una valutazione complessa, perché le obbligazioni devono contenere una combinazione di diverse opzioni sui tassi d’interesse. Ma Wall Street aveva dei modelli robusti per valutare i mutui ipotecari di miglior qualità, impacchettati in forma di obbligazioni. Tipicamente il loro rendimento era pari al costo del debito – ossia al tasso interbancario – più uno o due punti percentuali.
 
Agli inizi del 2006 il rendimento atteso sui mutui di miglior qualità scese fino al costo del loro finanziamento. Ossia il loro sovra rendimento era zero. Allo stesso tempo, anche il rendimento atteso sulle obbligazioni emesse dalle imprese, tenendo conto del tasso di fallimento delle imprese medesime, era sceso fino il costo del loro finanziamento. Ossia, di nuovo, il loro sovra rendimento era zero. Per i fondi pensione - negli Stati Uniti ed anche all’estero – questo era un disastro. Il fondo pensione medio, infatti, “chiudeva i conti” con un ritorno atteso medio del 9% sul proprio attivo, ed, invece, nelle condizioni date, riusciva a malapena a guadagnare la metà. Che cosa mai era accaduto? Per dare un senso a questo straordinario mutamento nell’universo dei mercati finanziari, dobbiamo andare oltre gli aspetti squisitamente tecnici. La domanda di attività finanziarie statunitensi aveva raggiunto dei livelli straordinari. Gli afflussi di capitale erano giunti fino al 6% del reddito nazionale degli Stati Uniti nel 2007. Insomma, tutto il mondo voleva le attività finanziarie statunitensi. 


Venti anni fa, l’economista insignito del premio Nobel, Robert Mundell aveva pubblicato una piccola ricerca, dove asseriva che i disavanzi delle partite correnti – nella storia moderna - potevano essere spiegati dalla demografia. Le persone anziane, infatti, risparmiano, ed i paesi con una popolazione che progressivamente invecchia, tende - di conseguenza - ad avere un eccesso di risparmi. Perciò questi paesi esportano risparmio verso i paesi con popolazioni più giovani. Sfortunatamente gli economisti - come gruppo professionale - hanno ignorato l’analisi di Mundell. Come che sia, l’approccio demografico da lui delineato è uno strumento potente per capire la crisi in corso. 

 
I mercati finanziari sono solo un “velo” che nasconde il ciclo della vita umana. I giovani s’indebitano, mentre le persone più anziane forniscono il credito; i pensionati, intanto, spendono i risparmi accumulati. Che si abbiano i giovani della tribù che dividono il cibo con gli anziani, o che si abbiano i pensionati che si mantengono grazie agli interessi ricevuti dalle obbligazioni con “in pancia” in mutui ipotecari accesi dai giovani, il risultato è lo stesso. Quel che rende intrattabile la crisi in corso non è il sistema finanziario, bensì le relazioni sociali sottostanti il sistema medesimo. Preso nel suo insieme, il mondo sviluppato assomiglia ad un villaggio senza figli.

Naturalmente, le cose sono leggermente più complicate.

Il mondo industrializzato sta invecchiando molto velocemente. C’è troppa gente – oltre 400 milioni di persone - al picco del “ciclo del risparmio” – ossia nell’età compresa fra i 40 ed i 64 anni, ed il loro numero sta aumentando. Allo stesso tempo c’è troppa poca gente nell’età compresa fra i 19 ed i 40 anni – quelli nel pieno del ciclo del deficit di risparmio - ed il loro numero si sta riducendo. Non c’è abbastanza gente nel villaggio per mantenere gli anziani. Se i risparmiatori giapponesi – i creditori - non trovano abbastanza giovani nel proprio paese per prestare loro il denaro, inevitabilmente devono andare a cercare i debitori all’estero. Il Resto del Mondo ha prestato agli Stati Uniti - nel 2007 - mille miliardi di dollari. Il Resto del Mondo ha spinto i propri risparmi dentro gli Stati Uniti, portando i tassi di interesse a dei livelli bassi ed alimentando la “bolla” edilizia. A loro volta, gli statunitensi si erano convinti che il continuo apprezzamento dei propri beni mobiliari ed immobiliari rendesse inutile il risparmio. Il tasso di risparmio statunitense crollò, mentre il disavanzo della bilancia dei pagamenti correnti andava in deficit – e dunque la bilancia in conto capitale andava in surplus.

Nel richiamare l’attenzione sulle cause sottostanti la crisi, non sto certamente cercando di giustificare la cupidigia e la frode retrostanti la vendita di due mila miliardi di dollari di obbligazioni con “in pancia” i mutui ipotecari sub prime, con gli stravaganti giudizi sul merito di credito con cui erano accompagnate, e simili incompetenze. Il fatto che non ci sia abbastanza grano non giustifica il fornaio che aggiunge surrettiziamente la segatura nel pane. Ma, nel nostro caso, non c’era il grano, ossia dei rendimenti sufficientemente elevati per soddisfare le prospettive di reddito degli investitori.
 
E questo perché - alla fine - non c’erano abbastanza persone giovani in grado di guadagnare le prospettive di reddito domandate.

Quando non ha a disposizione dei rendimenti “naturalmente” alti, in grado di soddisfare la domanda degli investitori lungo il loro “ciclo di vita”, l’industria finanziaria spinge in alto quel che ha a disposizione: i rendimenti modesti. Ovvio che i rendimenti modesti spinti all’insù, se aggiustati per tener conto del rischio che si corre per ottenerli, restano modesti. Tutti però preferivano osservare il rendimento, non il rischio.   Non sono i “cattivi” modelli di controllo del rischio ad avere prodotto i danni. Ho lavorato allo sviluppo di alcuni di questi modelli presso le banche maggiori, ed avevo dimestichezza anche con il complesso dei modelli a disposizione. Di fatto, i modelli funzionavano molto bene. Il problema era che nessuno voleva usarli. Per ridurre nel 2006 il rischio ci voleva un gran coraggio. Il coraggio consisteva nel dire agli azionisti che i dirigenti della loro impresa avevano deciso di ridurre leva e quindi anche la redditività degli investimenti, proprio nel momento in cui tutti quanti la stavano aumentando. Pochi presidenti di banca avrebbero messo a repentaglio la propria carica per mettere in opera degli assetti prudenti. 


La crisi si è articolata come una tragedia classica, dove i protagonisti erano coscienti che stavano facendo delle cose terribili e che tutto sarebbe finito in lacrime; nondimeno gli stessi protagonisti sentivano che non avevano altra scelta che continuare”.



(1) AAVV “Alla scuola della crisi” pagine 74-84, Centro Einaudi, Guerini

(2) Giorgio Arfaras, “Il grand’Ammiraglio Zengh He e l’economia Mondiale”, Guerini

(3) Intervista a Spengler, “La Cina Spacca l’Occidente”, pag 141-151, Limes
 
 
3- Potremmo alla fine affermare che gli Stati Uniti hanno prodotto ed anche esportato dei titoli di cattiva qualità, coperti da un giudizio positivo. Questi titoli non sono scomparsi, mentre si deteriora la qualità del debito pubblico di quasi tutti i paesi
  

Il grande assorbimento di debito pubblico ha dunque impedito che i rendimenti salissero. Il debito è stato emesso e l’onere del debito è cresciuto poco. Se da qui in avanti i rendimenti salissero, avremmo tre fenomeni: 1) il costo del debito sale e quindi i bilanci pubblici avranno maggiori oneri da interesse da pagare; 2) il rendimento del debito privato sale, facendo scendere i prezzi delle obbligazioni emesse; 3) sale il fattore di sconto degli utili. Il valore di un’azione è dato dal flusso di utili scontato per il rendimento del debito pubblico (P=U/i). Salirebbe il denominatore, ed il prezzo delle azioni andrebbe sotto pressione.


La prima condizione per la tenuta dei mercati finanziari (obbligazionari pubblici e privati ed azionari) è la stabilità dei rendimenti a lungo termine dei titoli del debito pubblico. Si sono avuti nel 2009 dei segnali di difficoltà, per ora nei paesi minori, come la Grecia. Il debito pubblico greco è però una frazione del debito pubblico emesso in euro. I paesi maggiori messi peggio sul versante del debito pubblico sono nientemeno che la Gran Bretagna, il Giappone e gli Stati Uniti. Nel 2009 la FED ha comprato titoli per un ammontare quasi pari al reddito fisso di nuova offerta. Nel 2010, a meno che essa cambi idea, si dovrebbe contenere. A quel punto il settore privato e le banche centrali estere dovrebbero comprare undici volte l’ammontare (2,06 trilioni) comprato nel 2009 (0,19 trilioni).


4- Sul versante delle azioni, la maggior parte delle previsioni sostiene che vi sarà una forte crescita degli utili nel 2010. A ben guardare le previsioni stesse, la crescita verrà quasi tutta dal settore finanziario e da quello energetico.

Quello energetico guadagna a partire da un barile sopra i 40 dollari e quindi abbiamo poco da aggiungere. Siamo scettici che il settore finanziario sia in grado di produrre grandi utili. Intendiamo degli utili “veri”, ossia degli utili che emergono dai bilanci che tengano conto per davvero dei prezzi delle obbligazioni che si hanno all’attivo e della crescita dei crediti di cattiva qualità.

Come che sia, intanto le banche comprano titoli del debito pubblico e non erogano crediti:
 

http://blog.atimes.net/?p=1287


Un campanello d’allarme è dato dalla modestia dei volumi scambiati durante il rialzo partito a marzo e dal fatto che l’ascesa dei corsi si è avuta – a partire da settembre – solo nel “dopo borsa”: 


http://2.bp.blogspot.com/_H2DePAZe2gA/SzJegFjRvJI/AAAAAAAAK4o/Kd8f6heoi04/s1600-h/ES%2520Regime%2520Change.jpg

 
Le vulnerabilità dei mercati alla fine è la crescita del debito pubblico dei paesi maggiori in presenza di saldi primari in deficit e l’eccessiva concentrazione delle aspettative di utile nel settore finanziario.
 
A proposito di crescita degli utili. Gli utili dovrebbero crescere come il reddito nazionale nominale, supponendo che la distribuzione fra salari e profitti sia costante nel lungo termine. Quest’ovvietà è stata smentita negli ultimi anni. Gli utili sono cresciuti di più. Guardando meglio la dinamica, si vede che gli utili del settore finanziario sono cresciuti di più, mentre quelli degli altri settori sono cresciuti come “da manuale", ossia come il reddito nazionale.

Infine la domanda: la borsa è cara?
 
L’indice Standard & Poor's diviso per la media degli utili dei dieci anni precedenti - il P/E depurato degli efeftti del ciclo - mostra come siamo ancora sopra la media - dal 1880 al 2009 - e come eravamo nella media anche a marzo, ai tempi del cosiddetto minimo. Si noti che la media è alzata dalla bolla del 2000. Senza la bolla, la media sarebbe più bassa e il P/E corrente più elevato. Dunque la borsa statunitense che guida tutte le altre non è a buon mercato.
 

5- Ecco i tre scenari:
 
Migliore. La crisi è quasi finita e quindi la borsa anticipa la ripresa, salendo. La ripresa genererà un gettito fiscale tale che il debito pubblico sarà sotto controllo; e dunque i rendimenti sono giustamente bassi. Il dollaro, infine, è debole perché si vendono dollari per comprare le attività più lucrative. Le materie prime industriali salgono perché in Asia c’è ripresa.

Medio. La crisi è quasi finita, ma la ripresa sarà stentata, perché le famiglie statunitensi non consumeranno come prima, perché debbono ridurre il debito. La ripresa stentata della domanda per consumi frenerà la crescita degli utili. Inoltre, non alzerà molto il gettito e quindi i deficit pubblici resteranno elevati e le obbligazioni in offerta saranno cospicue. La crescita della borsa è stata eccessiva. I rendimenti sono ancora bassi, ma saliranno, dunque i prezzi delle obbligazioni scenderanno. Le materie prime industriali salgono perché in Asia non ci si fida del dollaro. Inoltre, la domanda di oro rafforza il sospetto che vi sia timore diffuso sulla tenuta del dollaro.

Peggiore. La crisi sembra finita, e la ripresa non ci sarà. La politica economica non ha forza propulsiva e le famiglie statunitensi non consumeranno come prima, perché debbono ridurre il debito. La crescita asiatica è figlia della spesa per infrastrutture e non per consumi e dunque non sarà in grado di trainare la domanda mondiale (1). Il gettito fiscale sarà modesto e quindi i deficit pubblici resteranno molto elevati e le obbligazioni in offerta saranno sempre cospicue. I rendimenti non saliranno inizialmente perché si avrà crisi. Le materie prime industriali, infine, scenderanno per carenza di domanda.

La nostra idea è che il futuro stia fra lo scenario medio e quello peggiore. Di conseguenza, da un punto di vista strategico conviene aspettare che i prezzi raggiungano un nuovo equilibrio (inferiore). Da un punto di vista strategico conviene restare investiti in titoli del Tesoro a breve termine in euro ed aspettare che la crisi “morda”.  A quel punto si avrebbero i mezzi per investire. Se, invece, non mordesse, si è preservato il capitale.


(1) Per le ragioni dello scetticismo sulla crescita cinese:
 
http://www.centroeinaudi.it/commenti/la-gran-crescita-cinese-/-prima-parte.html

http://www.centroeinaudi.it/commenti/la-gran-crescita-cinese-/-seconda-parte.html


6- Le ragioni dello scetticismo sullo scenario migliore (1).
 
Chi prevede una ripresa a «V» pensa che tutto tornerà velocemente al livello antecedente la crisi. Con gli utili ante crisi la borsa statunitense non è cara, avendo un rapporto prezzo/utile intorno a 15. Con una crescita economica simile a quella passata, i debiti pubblici non vanno fuori controllo, perché le uscite volte a contenere la crisi si riducono in fretta, mentre aumentano le entrate fiscali. Alla base delle previsioni a «V» si ha l'idea che, come accaduto in passato, il rimbalzo arrivi in fretta, anche grazie alle politiche economiche espansive. Quello che le previsioni dette a «V» non tengono nella dovuta considerazione sono le differenze rispetto al passato. Le differenze rispetto al passato sono cinque:
 
1) il credito è erogato con fatica;
 
2) il risparmio delle famiglie è risicato e dunque non può essere usato per aumentare i consumi;
 
3) il mercato del lavoro è meno elastico;
 
4) la domanda di abitazioni, prima di rilanciare l'economia, dovrà assorbire le molte case costruite e non vendute;
 
5) i bilanci degli stati e delle municipalità sono mal messi e non potranno essere usati per espandere la domanda.


(1) http://www.centroeinaudi.it/commenti/oggetti-del-desiderio-/-iii.-la-crescita-economica-a-v.html 


Appendice. L’importanza del saldo primario: l’esperienza italiana (1).
 

Negli anni Settanta e Ottanta l’Italia aveva accumulato un ingente debito pubblico: dal 1970 al 1990 il bilancio dello stato al netto del pagamento degli interessi sul debito, cioè il saldo primario, si mantiene in deficit, va in pareggio solo nel 1991 e da allora è in surplus. Questo significa che per ben vent’anni le spese sono state superiori alle entrate; in seguito le entrate sono diventate superiori alle spese, sempre al netto degli interessi sul debito.

Immaginiamo un debito pubblico che non scade mai (irredimibile) pari a 1.000 lire; il costo del debito è sempre pari a 10%. Immaginiamo anche un bilancio pubblico al netto del pagamento degli interessi in deficit di 100 lire (saldo primario in deficit). Lo stato deve pagare 100 lire di interessi (1000 X 10%) e trovare 100 lire per le sue spese. Queste 200 lire le trova vendendo nuove obbligazioni per 200 lire: il debito pubblico diventa pari a 1.200 lire (1000 + 200). L’anno successivo, gli interessi sono sempre pari al 10% e il saldo primario è sempre in deficit di 100 lire: lo stato deve dunque pagare 120 lire di interessi (1.200 X 10%) e trovare ancora 100 lire per le sue spese. Emette obbligazioni per 220 lire e il debito arriva a 1.440 lire (1.200 + 220). Ogni anno il debito aumenta: questa è la descrizione semplificata della condizione italiana dal 1970 al 1990. Adesso immaginiamo una situazione analoga (debito pubblico di 1.000 lire e tassi pari al 10%) ma con il bilancio statale in attivo al netto del pagamento degli interessi (saldo primario in surplus) per 100 lire. Le 100 lire di interessi sono pari al saldo primario in surplus di 100 lire: il debito pubblico non aumenta più.
 
Questa situazione corrisponde all’inizio della fase di risanamento. Stabilizzare il debito pubblico non basta, perché per pagarlo è necessaria un’ingente quantità di risorse che potrebbero essere usate in modo più proficuo: esso va ridotto.
 
La riduzione del debito si può ottenere in due modi: alzando il saldo primario a 200 lire, ossia con una combinazione di minori spese e maggiori entrate, oppure facendo scendere il carico di interessi.
 
La prima soluzione presenta dei limiti, perché la spesa pubblica non può essere tagliata molto a meno di ridurre le risorse destinate a sanità, pensioni, istruzione, ed esistono limiti all’inasprimento fiscale. Il vincolo politico spinge quindi a puntare, dopo aver raggiunto un accettabile surplus primario, sulla discesa dei tassi di interesse.

Il tasso di interesse dipende dal livello internazionale dei tassi e dalla svalutazione attesa. Il tasso internazionale di riferimento è quello del paese virtuoso, che, nel caso dell’Italia, era rappresentato dalla Germania. Se i tassi in Germania sono del 5%, allora il tasso italiano deve essere almeno pari al 5%. Se la svalutazione attesa della lira verso il marco è del 5%, allora i tassi tedeschi restano al 5%, mentre i tassi italiani devono essere pari almeno al 10%. In questa situazione avere obbligazioni in lire o in marchi è equivalente: un italiano, comprando obbligazioni tedesche, che rendono il 5%, guadagnerà il 5% di interessi e il 5% sul cambio; l’italiano in Germania guadagna il 10%, come se avesse acquistato obbligazioni italiane. Un tedesco comprando obbligazioni italiane, che rendono il 10%, guadagnerà il 5%, cioè il 10% di interesse bilanciato da un 5% di perdita sul cambio. Anche il tedesco guadagna in Italia come se avesse acquistato obbligazioni tedesche. La svalutazione attesa dipende dalla differenza di inflazione fra i paesi: se i prezzi dei beni prodotti in Italia salgono del 10%, mentre in Germania salgono solo del 5%, allora la lira deve svalutarsi del 5% verso il marco per mantenere invariata la competitività.
 
Se in Italia sia l’inflazione corrente sia quella attesa scendono, allora i tassi italiani, venendo meno l’aspettativa di svalutazione, cominciano a convergere verso quelli tedeschi. Se poi il governo dichiara e il mercato prevede che, con la convergenza dell’inflazione, alla fine sarà adottata la stessa moneta, la convergenza dei tassi conoscerà un’accelerazione: il debito italiano tenderà in poco tempo a costare il 5%, non più il 10%, poiché con la stessa moneta, se le obbligazioni italiane rendono il 10% e quelle tedesche il 5%, verranno infatti comprate le obbligazioni italiane; il prezzo delle obbligazioni italiane salirà, abbattendo il rendimento della cedola molto alta.
 
Se il saldo primario si mantiene positivo per 100 lire e gli oneri finanziari scendono da 100 lire verso 50 lire, ogni anno il debito si ridurrà di 50 lire: man mano che si riduce, grazie alla combinazione di surplus primario e bassi tassi d’interesse esso, anche a parità di tassi, costerà sempre meno. In un tempo lunghissimo arriverà addirittura ad annullarsi. Cade quindi il premio per un’eventuale insolvenza, poiché si è imboccato il sentiero di sostenibilità del debito; i tassi scenderanno più facilmente.

Vediamo ancora un ultimo passaggio. I risultati effettivi del risanamento sono stati superiori a quelli dichiarati dal governo. Le previsioni del governo erano di basso profilo; in questo modo lo studente Italia, immaginato pigro e millantatore dalla maestra Mercato, ogni anno mostrava il proprio zelo. Se avesse dichiarato risultati mirabolanti e si fosse poi dimostrato incapace di raggiungerli, sarebbe stato rimandato a settembre e il costo del risanamento sarebbe stato ben maggiore. Nelle previsioni del governo i tassi sui BOT a 12 mesi erano previsti, per la fine del 1998, pari al 7,3% nel 1995, pari al 7% nel 1996, pari al 6% nel 1997. A fine 1998 furono effettivamente pari al 3,2%.

Riassumendo, il meccanismo del risanamento è stato il seguente: portare prima il bilancio pubblico al netto del pagamento degli interessi in surplus, poi comprimere l’inflazione per favorire l’abbassamento dei tassi, infine dichiarare la volontà di entrare, fin da subito, nella moneta unica per accelerare la convergenza dei tassi, il tutto accompagnato da previsioni modeste sugli obiettivi. La discesa dei tassi e la conseguente discesa dell’onere del debito pubblico hanno ridotto le spese dello stato e quindi la necessità di manovre continue di correzione. La spesa pubblica per salari, pensioni, sanità, istruzione non è stata toccata dopo l’adozione della moneta unica; i percettori di redditi inferiori alla media hanno, sotto il profilo delle prestazioni pubbliche, tratto vantaggio dall’euro. Anche i percettori di redditi sopra la media hanno tratto vantaggio dall’euro: se, infatti, il debito pubblico non fosse stato ricondotto sotto controllo, si sarebbe reso necessario un aumento delle imposte per pagarlo e quindi, in un sistema fiscale progressivo, sarebbe aumentato il carico per gli abbienti.
 
Questa dinamica opera nel lungo termine, analizziamo ora l’effetto dell’euro nel breve termine in relazione agli abbienti. L’imposta una tantum per entrare nell’euro, la cosiddetta eurotassa, è stata pagata in maggior misura dagli abbienti; come visto in precedenza, l’adozione dell’euro e la conseguente discesa dei tassi hanno provocato l’aumento dei prezzi delle obbligazioni. Gli abbienti posseggono in maggior misura i titoli di stato a cedola fissa, che sono quelli sensibili alla discesa dei tassi: in altre parole, nel breve termine gli abbienti hanno avuto una perdita in conto reddito, ma hanno guadagnato in conto capitale.
 
Grazie alla moneta unica il debito pubblico italiano si è sottratto alla danza ricorrente dei “giochi di convergenza”: vediamone il meccanismo. Se i tassi d’interesse dei paesi centro (Stati Uniti, Germania, Giappone) scendono, allora il sistema finanziario si indebita con le banche dei paesi centro e compra le attività finanziarie dei paesi periferici, che hanno un rendimento maggiore: nel linguaggio finanziario si dice che sale l’“appetito per il rischio”. Man mano che gli acquisti sono fatti, salgono i prezzi delle attività dei paesi periferici, generando grandi guadagni in conto capitale. Naturalmente il segreto per guadagnare è uscire per tempo. Accade il contrario con i tassi dei paesi centro che salgono. Poiché i rendimenti delle attività poco rischiose, quelle dei paesi centro, convergono verso quelli delle attività più rischiose, quelle dei paesi periferici, si preferiranno le prime alle seconde: si guadagna lo stesso e si rischia meno. Nel linguaggio finanziario si dice che si “vola verso la qualità”.  Il debito pubblico italiano era comprato con i tassi dei paesi centro in discesa e venduto con i tassi dei paesi centro in salita: la volatilità dei prezzi delle obbligazioni italiane era dunque notevole. La crisi della lira e della sterlina del 1992 ha origine dall’ascesa dei tassi in Germania; quella del 1994-1995 coincide con la crisi messicana, che nasce dall’ascesa dei tassi negli Stati Uniti. La lira scompare di fatto nel 1987, quando diventa certa l’adozione della moneta unica. E infatti la crisi asiatica del 1997e quella russa del 1998 sono state evitate. 


(1) Giorgio Arfaras, “Il grand’Ammiraglio Zengh He e l’economia Mondiale”, Guerini Editore