Come spesso accade, la pubblicità anticipa il futuro. E lo spot sulle Eni live station ne è un esempio. Dopo aver illustrato tutto quel che si può fare in questi luoghi completamente dedicati alla mobilità a portata di clic – dove puoi noleggiare un’auto, ricaricare quella elettrica, prenderti un caffè o pranzare e riempire la borsa della spesa all’Emporium – la voce fuori campo conclude: «E puoi anche farci rifornimento». Da core business ad optional. Anticipo di futuro. Di quel che saranno i distributori dopo il 2035. La data destinata a segnare una svolta. Epocale. Cambierà molto, se non tutto. Per effetto dello stop alla vendita delle vetture termiche imposto da Bruxelles nei 27 Paesi dell’Unione europea.

Vero che le auto a diesel e benzina non cesseranno di circolare dall’oggi al domani – anzi, c’è già chi prospetta un fiorire di chilometri zero acquistati per esempio in Svizzera, per i quali non ci sarà un divieto Ue – ma insomma le vendite dei carburanti tradizionali scenderanno. E già prima di quella data perché presumibilmente – almeno nei calcoli di Bruxelles, sempre che siano azzeccati – gli automobilisti europei nei prossimi anni tenderanno sempre di più ad avvicinarsi a modelli elettrici per non trovarsi poi di colpo tra le mani un’auto svalutata di colpo. E quindi i distributori dovranno cambiare pelle. Far spazio alle colonnine per la ricarica delle auto elettriche (con potenza superiore ai 100 Kw) e prevederne altre per biocarburanti, biometano, idrogeno: «energie decarbonizzate», per dirla con le parole dei tecnici.

La stazione del servizio del futuro secondo Eni sarà un hub ecologico

Una rete con 22mila punti vendita

Ma, soprattutto, dovranno sottoporsi a una cura dimagrante. Ne è più che mai convinto Bruno Bearzi, presidente di Figisc, la federazione che riunisce i gestori di impianti associati a Confcommercio:«Oggi in Italia abbiamo una rete ridondante, polverizzata. Sproporzionata nel confronto con il resto d’Europa. Noi abbiamo 22500 impianti, la Germania 14.500, Francia e Spagna girano attorno agli 11mila. Con una media dell’erogato che è dimezzata rispetto agli altri Paesi. Bisognerà tagliare sette otto mila impianti. Magari cominciando da quelli che non offrono servizi aggiuntivi». Secondo Bearzi – che, insieme con i rappresentanti delle altre due sigle sindacali principali Faib Confesercenti e Fegica, ha messo insieme il documento «Riformare la rete carburanti per sostenere la mobilità» – sarà anche l’occasione per fare un po’ di pulizia contro forme di«caporalato petrolifero».

In altre parole, tra gli oltre mille proprietari della rete di vendita nazionale – che conta oltre 350 marchi – c’è chi – compresa qualche grande compagnia -  non applica il contratto di categoria sebbene sia previsto perché le norme sono un’arma scarica: non c’è sanzione per chi le infrange. Quindi la ristrutturazione della rete dovrebbe anche essere l’occasione per correggere certe storture:«Colpire per esempio il 30 per cento del venduto che sfugge all’imposizione fiscale e che vuol dire 10-12 miliardi di mancato introito per lo Stato – dice Bearzi – ma anche mettere fine a certe forme di precariato e chiedere un controllo ex ante dell’Agenzia delle dogane e un certificato del casellario giudiziale».

La mappa dei distributori in Italia
La mappa dei distributori in Italia

Oltre mille proprietari con 350 marchi

Ma l’ultima parola spetterà ai proprietari. Saranno loro che potranno attingere ai finanziamenti di due diversi fondi per ristrutturare la mappa dei distributori: Pnire (piano nazionale infrastrutturale per la ricarica dei veicoli elettrici) che punta a creare una vera rete di colonnine elettriche e Pnrr (Piano nazionale ripresa e resilienza) che prevede la costruzione di cento stazioni di ricerca sperimentale con tecnologia di stoccaggio dell’energia. E poi, come sottolinea il presidente di Figisc Confcommercio, serviranno probabilmente degli incentivi per evitare che il piano di razionalizzazione della rete penalizzi le comunità più piccole, a cominciare da quelle montane. «Si dovrà evitare che chi abita in una valle debba percorrere decine e decine di chilometri per fare rifornimento»sottolinea Bearzi. Il rischio rimanda a quel che accade con la banda larga: il territorio appare poco appetibile e le grandi compagnie se ne tengono alla larga. Probabile che accada anche per i distributori di carburante.

La conversione delle compagnie no logo

E che spazio avranno le compagnie no logo? Quelle che hanno avuto un peso non indifferente nel calmierare i prezzi di benzina e gasolio proprio perché il commercio dei carburanti tradizionali era ed è il loro business. Alla Centro Calor di Magliano Alpi, nel Cuneese, considerati i pionieri delle pompe bianche, con impianti tra Piemonte e Lombardia, sono ottimisti.

«Come sempre le novità vengono accolte con un po’ di diffidenza, ma in realtà possono rappresentare importanti opportunità – dice il procuratore Omar Michele Milanesio -. Quel che conta è non perdere di vista la nostra stella polare: il consumatore. Dobbiamo essere capaci di offrire sempre quel che cerca. E dovremo essere anche attenti a cogliere gli umori dei mercati, adattarci alla loro velocità di cambiamento sempre più rapida. Ma abbiamo tutto quel che serve per riposizionare il business. Puntando ovviamente molto sui carburanti di nuova generazione che stiamo già sperimentando anche se il parco macchine è ancora limitato. Avranno emissioni residue del tre per cento. Un’inezia rispetto a quelli attuali. E poi dovremo sempre di più immaginare stazioni di servizio come poli dove puoi ricaricare l’auto elettrica, ritirare il pacco di Amazon, prenderti una pausa davanti a un caffè. E sarà importante renderle sempre più ecologiche, con impianti fotovoltaici anche per abbattere i costi di funzionamento. Ma le novità non ci fanno paura: siamo stati i primi durante il governo Monti a fare uno sconto a chi pagava con il bancomat. Ed erano davvero altri tempi».