«L’Asia, che per noi già oggi è una piazza importante, con una presenza pari a circa il 33 per cento del nostro portafoglio, continuerà ad essere centrale ancora per molti anni. Grafici e proiezioni indicano incrementi multipli rispetto ad Europa e Stati Uniti. Tuttavia, dobbiamo prendere atto che, da Torino è difficile essere capillari, ed entrare nel mercato dei fondi asiatici che si stanno aprendo agli investitori occidentali. Ecco perché stiamo perfezionando una joint venture con un operatore di primo piano del private market che ci permetterà di avere una base a Singapore. Sarà un assist importante per entrare direttamente in contatto con professionisti che da tempo fanno il nostro mestiere in quell'area. Con il team di investimento e di controllo di gestione abbiamo la consuetudine di incontrare i gestori tre o quattro volte all’anno, ma è un’altra cosa avere lì un ufficio con personale dedicato. Saremo ancora una volta pionieri, ma credo sia la scelta giusta per individuare i migliori player emergenti. D’altronde già oggi ci sono più gestori in Asia che nel continente europeo: 6.500 contro 5.000. Ma quel che più conta è che il private equity ha un potenziale di crescita enorme. L’Asia sarà presto il primo mercato al mondo nel settore per effetto della crescita demografica, dell’espansione della middle class e della digitalizzazione».
Pietro Mazza Midana, presidente di Obsidian Capital sgr, il nuovo nome del private equity in Italia che nasce da una lunga esperienza, ha le idee chiare su dove orientare la bussola degli affari. Con il socio di sempre, Giacomo Stratta, ceo della società, investe per conto di fondi pensione, assicurazioni, family office, fondazioni bancarie e famiglie con grandi patrimoni sui mercati internazionali in fondi di private equity e private debt. Un’esperienza costruita in vent’anni di lavoro sotto l’insegna prima di Fenera Holding e quindi di Fenera & Partners, durante i quali la società di gestione del risparmio – che aveva tra i soci la stessa Fenera Holding, Pkb Private bank e il gruppo Banca Sella – ha raccolto oltre 800 milioni di euro. Ora la nuova avventura sotto l’insegna Obsidian Capital, con il gruppo Banca Sella sempre accanto ai founders.
Presidente, qual è il vostro ruolo nell’arcipelago degli investimenti?
«In Italia pochissimi fanno il nostro mestiere. D’altronde l’allocazione al private equity è ancora marginale nei portafogli dei risparmiatori: circa il 7 per cento degli investimenti si concentra sugli asset alternativi, ai quali sono preferiti la liquidità, la Borsa, le obbligazioni. Fuori dai confini nazionali il quadro è ben diverso: nel mondo questa cifra sale al 39 per cento e per i grandissimi investitori istituzionali si arriva al 63 per cento. Eppure, investire in questa nicchia è da sempre il nostro mestiere e abbiamo sviluppato un know how competitivo, come confermano le performance ottenute anche nel 2022, da molti considerato annus horribilis della finanza…tanto da permetterci di sfidare i molti competitor stranieri che provano a occupare questa nicchia di mercato riservata a pochi investitori nazionali. Partiamo da una regola: solo clienti italiani e solo gestori esteri. E con un lavoro di alta qualità, tailor made direi, per l’attenzione che diamo ai nostri clienti, alle loro esigenze di reportistica, di look through. Li conosciamo uno ad uno. Credo che questo sia un valore aggiunto importante. E poi in fondo, come racconta la nostra storia, siamo degli investitori diventati manager e non manager al servizio di investitori».
La scelta di Torino come sede di quella che a tutti gli effetti è una boutique finanziaria è frutto solo del legame che avete con la città?
«Torino è una piazza finanziaria ricca e molto sofisticata. Ci sono le fondazioni, alcune realtà bancarie, fiduciarie, family office e professionisti specializzati come notai e commercialisti, che hanno lavorato in maniera seria e spesso anche molto innovativa. Se dovessi fare un paragone direi che il settore finanziario non ha nulla da invidiare al settore automotive o a quello del food che nella narrazione quotidiana simboleggiano il nostro territorio. Quel che è mancato è la comunicazione dei risultati ottenuti. Si dice riservatezza: il faire sans dire. Per più ragioni non c’è la volontà di comunicare come si fanno bene le cose. Il rischio però è di rimanere un’espressione geografica: “near Milan”. E invece qui c’è un terreno fertile sia dal punto di vista della qualità sia delle risorse, e questo va fatto sapere».
Un quadro che certo non agevola la caccia ai talenti. Eppure, la vostra scommessa più importante è proprio sul team, non è vero?
«Per noi il fattore umano è un elemento chiave. Ci siamo ispirati ai modelli di governance tipici del mondo anglosassone. E la meritocrazia è una parte importante di questo progetto. Ecco perché abbiamo scelto di aprire il capitale ai manager, condividere talune quote delle commissioni di performance con tutti i collaboratori, garantire un welfare completo. Fidelizzare i manager è una mossa indispensabile se li si vuole far venire o rientrare a Torino. E, soprattutto, in un’ottica di retention. Essendo un mercato piccolo le competenze sono rare e i “campioni” sono contesi. Ci sono strumenti adeguati per limitare il rischio di perderli, e bisogna saperli usare ».ù
Quanto pesano inflazione e aumenti dei tassi sulle scelte dei grandi investitori?
«Da un ulteriore aumento dei tassi credo possa venire un’opportunità di investimento, prima nel debt e poi nell’equity. Le banche si faranno ulteriormente più onerose e le aziende più sane potranno guardare con maggior favore e attenzione a chi come i gestori debt garantiscono anche un supporto imprenditoriale. In altre parole, non ti lasciano solo nei momenti più complessi. Chiaro che c’è da ribaltare la mentalità imprenditoriale. Le nostre scelte saranno necessariamente sempre più attente ad evitare rischi default, ma soprattutto continueremo ad investire in geografie che permettono di rientrare dei capitali a rischio il più velocemente possibile, cosa che per lo più vale nei Paesi dove vige il common law».
Ecco, le imprese. In un numero sempre più importante puntano al delisting. Perché?
«La Borsa corrisponde sempre meno alle esigenze di un’azienda soprattutto ora che in tempi di algoritmi e intelligenza artificiale i mercati sono più instabili o comunque più sensibili a qualsiasi notizia. Con effetti che poco aiutano un’azienda che punta a consolidarsi. Insomma, la quotazione si è rivelata in tante situazioni poco opportuna. Sempre più imprenditori guardano ad altri strumenti per far crescere l’impresa, e sempre più aziende crescono più nella loro fase “private” rispetto a quella “public”».
Quanto pesano nell’economia globale i fallimenti in serie delle banche regionali americane?
«Di fronte a notizie come quella del fallimento della Silicon Valley Bank ci sarà sempre l’effetto panico sui mercati. Ma avrà una durata breve e una portata limitata. Il sistema bancario italiano e quello europeo hanno regole assai più severe rispetto all’America e questo ha reso il credito dell’area più forte. In ogni caso, come investitori, anche i crolli cui abbiamo assistito di recente sul mercato delle banche regionali americane possono offrire opportunità. Questione di coraggio. Noi, e non solo noi, abbiamo voluto essere reattivi di fronte alla notizia del crac di Svb, e prontamente abbiamo investito in fondi di secondario specializzati nel venture capital, il settore che più di altri ha patito gli ultimi due anni di mercato».
Il titolo del prossimo Festival dell’economia di Torino è “Ripensare la globalizzazione”. Che cosa cambierà secondo lei dopo che per anni si era creduto che il libero scambio portasse sviluppo e democrazia ovunque?
«La globalizzazione è un fenomeno economico complesso con vantaggi e sfide. Ha promosso l'interconnessione a livello mondiale, ma ha anche esacerbato le disuguaglianze e ha reso le economie vulnerabili alle crisi. È importante affrontare le criticità della globalizzazione oggi, lavorando per garantire che i suoi benefici siano distribuiti in modo equo e che siano adottate politiche che riducano le disuguaglianze e proteggano la stabilità economica globale. Il quadro sta già cambiando rispetto al passato. Per noi il fattore oggi più rilevante è certamente l’incertezza geopolica. Le tensioni commerciali tra importanti player, come gli Stati Uniti e la Cina, hanno portato a un clima di incertezza e a una riduzione degli scambi internazionali. Per questo riteniamo sia molto importante valutare sempre attentamente l’esposizione al mercato delle aziende target nelle quali investiamo: le esportazioni, le valute, ma anche e sempre di più le variabili esogene al business. Tornando all’Asia, e così chiudo idealmente il cerchio, mi capita spesso di pensare che investire in questa geografia e in attività che si sviluppano per il mercato locale resti una scelta che potrà continuare a dare i suoi frutti per molti anni a venire».
© Riproduzione riservata