Si commettono in Italia abusi d’ufficio? Certamente, ogni giorno. Emergono, attraverso le conversazioni telefoniche e i messaggi elettronici, reati compiuti o in preparazione? Ogni giorno. Corridoi e uffici degli enti pubblici sono visitati da consulenti-mediatori che promettono vantaggi e millantano conoscenze? In numero incalcolabile, che in piccola percentuale si trasforma in corruzione. Ha dunque ragione la magistratura associata nell’opporsi al disegno di legge Nordio che abroga l’abuso d’ufficio, circoscrive il traffico d’influenze e restringe l’ambito delle intercettazioni e della loro divulgazione? No, ha torto.
Questa palese contraddizione rende il quadro - di per sé complicato - molto più confuso. Eppure solo accettando di immergersi in questo oscuro scenario si può sperare di uscirne con qualche idea più precisa. Chi abbia a cuore la legalità, perché dovrebbe accogliere positivamente la proposta del governo? Perché un sistema democratico, meglio liberal-democratico (anche sul piano dei diritti fondamentali e della libertà personale), non può consentire oltre misura un controllo di legalità che interrompe il decorso del tempo solo per le persone indagate, mentre per tutti gli altri la partita continua. E che si risolve il più delle volte in un nulla di fatto.
La formula originaria dell’articolo 323 del Codice Rocco è rimasta in vigore per quasi 60 anni. Poi nei successivi 30 è cambiata quattro volte. La modifica del 2020 circoscrive l’abuso d’ufficio ai casi di violazione «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità». Insomma, atti contra legem e al di fuori della legittima discrezionalità. Ma un delitto di un pubblico ufficiale contro la pubblica amministrazione è per definizione contrario alla legge. Se è necessario scriverlo, qualcosa non funziona. E se perfino scriverlo non basta, allora l’abrogazione non è insensata.
Trent’anni fa il nuovo Codice di procedura penale prometteva indagini brevi, al massimo sei mesi, salvo rari casi di proroga autorizzata dal Gip; il Pubblico ministero doveva iscrivere tempestivamente nel registro la persona indagata, alla quale, solo nell’eventualità di dover compiere i cosiddetti “atti irripetibili”, inviava un avviso di garanzia (cioè a sua garanzia) affinché potesse nominare un avvocato ed eventualmente un perito. Altrettanto in caso di provvedimenti cautelari autorizzati dal Gip. E si assumeva la veste di imputato solo in caso di richiesta di rinvio a giudizio (così tuttora, ma solo formalmente).
La prassi è tutt’altra. La proroga delle indagini (anche plurima) è sempre autorizzata; la notizia dell’avviso di garanzia, con o senza misura cautelare, è sempre rumorosa e gli effetti deflagranti; spesso si fatica a scorgere quali siano gli ulteriori atti d’indagine compiuti dopo il rapporto di polizia giudiziaria all’origine del procedimento (a sua volta spesso attivato da un esposto privo di riscontri oggettivi). E si può essere rinviati a giudizio senza mai essere stati ascoltati dal pubblico ministero o, se lo si chiede quando arriva la notifica di conclusione delle indagini, allora possono trascorrere parecchi mesi di attesa (benché il codice preveda tempi molto stretti) e slittano la richiesta di rinvio a giudizio e la fissazione dell’udienza preliminare.
Questa è la deriva del processo penale, e non stiamo parlando di reati di mafia né di violenze contro la persona e neppure di complessi reati societari. Si obietta che non si è lasciato il tempo di verificare a pieno gli effetti della riforma del 2020 e, soprattutto, della ancor più recente riforma processuale Cartabia, che subordina l’iscrizione nel registro degli indagati alla sussistenza del reato e ad effettivi indizi a carico dell’amministratore o del pubblico ufficiale. Ma non avrebbe dovuto essere così da sempre? Quanti eccessi sono stati compiuti per una malintesa obbligatorietà dell’azione penale? Se la volete diversa, si diceva, cambiate prima la Costituzione! E invece ora si ammette che l’obbligatorietà deve confrontarsi con il rispetto di princìpi di rango costituzionale.
Regole di condotta e garanzie
Un sistema penale o si fonda su una cultura effettivamente accusatoria, nella quale tutto ciò che è indagine preliminare non alcun effetto sulla reputazione e sulla presunzione di innocenza di una persona. O deve sottostare a tassative regole di condotta e di rispetto delle garanzie. A cominciare dalla durata delle indagini, che sembra secondaria e sconosciuta a molti magistrati della pubblica accusa. I quali, poi, sono gli unici ad aver commentato negativamente il ddl Nordio. Perché i giudici tacciono? Cosa pensano dell’80% dei 5mila procedimenti per abuso di ufficio che si estinguono (cioè che loro, giudici, estinguono) prima del giudizio? E delle 18 condanne infine pronunciate, il 4% delle sentenze e lo 0,3% dei procedimenti avviati?
La proposta contiene molte altre cose. Il traffico di influenze illecite (articolo 346-bis, creato nel 2012 e già modificato nel 2019) si avvia a ripetere l’esperienza dell’abuso d’ufficio: riscritto per essere tipizzato, determinato, diventa evanescente. Il “traffico” sarà punibile solo se l’influenza determina il compimento di altro reato o se è contigua alla corruzione… E allora, qual è la fattispecie? E a cosa serve, se si accompagna ad un reato più grave? In “compenso” se il suo autore collabora con la giustizia e “fa i nomi” dei complici o dei beneficiari, avrà la pena ridotta anche di due terzi o, se agisce «prima di avere notizia che nei suoi confronti sono svolte indagini» (magari ha sentito puzza di bruciato), non sarà punibile. Pentitismo in purezza.
Le intercettazioni e i copisti
C’è poi il capitolo intercettazioni, che per ora non riguarda i presupposti per chiederle ma i limiti alla loro divulgazione. Le intercettazioni non utilizzate in un provvedimento del giudice non sono divulgabili, ancorché non più segrete. Su questo ha reagito negativamente anche buona parte dell’informazione. Si è chiesto su La Stampa Mattia Feltri, criticando a sua volta la protesta dell’Ordine dei giornalisti in nome del diritto dei cittadini a essere informati: «È davvero questo, di copisti, il nostro mestiere?». Le intercettazioni sono essenziali e irrinunciabili, se vengono disposte nei confronti di pochissime utenze e per brevissimo tempo, per trovare il riscontro a un reato identificato. È del resto ciò che prevede il Codice, sempre aggirato con il placet del Gip. Invece sono divenute la rete per la pesca a strascico: se va bene conducono ad altri e magari più gravi reati, ma non per questo il loro abuso diventa legittimo. Il ministro Nordio, nell’intervista a Giovanni Bianconi sul Corriere delle Sera del 22 giugno, è stato chiaro: l’inchiesta penale non abroga l’articolo 15 della Costituzione sul diritto fondamentale alla segretezza delle comunicazioni. Lo ridimensiona, ma nella misura strettamente funzionale a quell’inchiesta e agli specifici reati ipotizzati, senza dover travolgere la vita privata e di relazione (come invece avviene sempre, per il piccolo amministratore locale o per Matteo Messina Denaro).
Taccio sulla previsione, giusta in via di principio ma complessa e rischiosa, dell’interrogatorio del giudice prima di decidere sulla misura cautelare chiesta dal Pm. E accenno alla inappellabilità (da parte del Pm) delle sentenze di proscioglimento del giudice monocratico di primo grado. È uno dei casi in cui si spaccia per riforma una misura deflativa, buona per le statistiche giudiziarie pro-Pnrr. La norma è stata già bocciata dalla Corte nel 2007, per l’asimmetria tra i limiti posti al Pm e la libertà di appello lasciata all’imputato, in caso di condanna. Contrasta con il giudicato costituzionale: se pure divenisse legge cadrebbe alla prima occasione. Inoltre è in via di principio illogica: è forse più affidabile (e perciò inappellabile) una sentenza del giudice monocratico anziché quella del giudice collegiale? Non sta in piedi.
I limiti del disegno di legge
Il disegno di legge è dunque coerente con il programma “liberale” a lungo annunciato dal ministro Nordio? Lo è, con molti limiti, a cominciare dall’eccesso di annunci e di attesa nei mesi precedenti; ma è indebolito dalla “dedica” forzata all’appena scomparso ex presidente Berlusconi: l’ostinazione processuale, tutto sommato inconcludente, nei suoi confronti non assolve certo la sua visione della giustizia e della Pubblica amministrazione, sostanzialmente al servizio della maggioranza di turno e dei suoi clientes. Inoltre è stato gestito male il rapporto con la magistratura associata (e il Csm), configurando quasi una vertenza sindacale e una impropria richiesta di trattativa, come - in altro contesto - ha cercato di fare il “sindacato” dei magistrati della Corte dei conti.
Condividere l’abrogazione dell’abuso d’ufficio e ammettere che gli illeciti sono più diffusi di quanto emerga può apparire schizofrenico (come del resto lo è il legislatore). Ma al malcostume diffuso non si pone rimedio con il panpenalismo, che ha avuto tutto il tempo di operare, fallire e dare il cattivo esempio, a cominciare dalla corporazione che lo esercita.
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