Il 17 e 18 marzo prossimi, il Liberal Forum organizza a Torino un importante convegno dal titolo “Una riforma liberale della giustizia e le battaglie per i diritti di libertà. In ricordo di Enzo Tortora”. L’occasione è senz’altro legata alla ricorrenza del 40mo anniversario dell’arresto di Enzo Tortora, la cui triste vicenda giudiziaria ha rappresentato una macchia indelebile per il nostro Paese.
Il doveroso ricordo impone una riflessione attuale. Ed è quella che il Convegno si prefigge di compiere, senza pretese enciclopediche e, soprattutto, rivolgendosi non solo, o non tanto, a chi è parte del sistema giudiziario (avvocati, magistrati), ma soprattutto all’opinione pubblica, che a diverso titolo è destinataria di quel servizio pubblico che è l’amministrazione della giustizia. Il punto di partenza è la convinzione, condivisa dai partecipanti al Convegno, che la storia sia, come diceva Manzoni, una guerra contro il tempo, in quanto chiama a nuova vita fatti ed eroi del passato.
L'emergenza oggettiva
L’emergenza giustizia in Italia non è solo testimoniata dai numeri, che nella loro severa nudità, dimostrano la persistente incapacità del sistema giudiziario penale di far fronte alla domanda di tale servizio. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, pubblicati a fine gennaio 2023 nel terzo trimestre del 2022 il totale dei procedimenti penali pendenti, ovvero ancora in corso, in Italia (sommando quelli davanti a Giudici di Pace, Tribunali, Corti d’Appello e Corte di Cassazione) erano 1.472.585. Si avverte una sensibile riduzione rispetto all’anno precedente, sebbene, in valore assoluto, tale numero di processi non si discosti di molto rispetto ai numeri di venti anni fa. Negli ultimi 7 anni si avverte, comunque, una tendenziale riduzione di tale enorme numero di procedimenti. Ora spetterà, secondo le aspettative poste a suo fondamento, alla c.d. Riforma Cartabia tentare di ulteriormente affrontare tale emergenza. Nessuno, in ogni caso, potrà mai confidare che si realizzi l’obiettivo di una legge di Solone, lui attribuita da Gaetano Filangeri: che non vi fosse più di un processo al giorno…
L'approccio da cambiare
Ma se di emergenza si può e si deve parlare, questa non è solo legata agli strumenti processuali. Ma richiede, se si vuol esser coerenti, uno sforzo assai maggiore, sforzo che investe l’intero e complessivo approccio della giustizia penale in Italia.
Salvo che non si voglia continuare a credere nella fallacia del positivismo - per cui l’onnisciente, infallibile legislatore con un tratto di penna riesce a metter le braghe alla realtà - si deve partire, come si è detto, da un approccio maggiormente maturo.
Il che vuol dire, innanzitutto, abbandonare una volta per tutte il mostruoso errore che conduce ad una insana, pericolosa e profondamente illiberale unificazione del giudizio storico, del giudizio politico e del giudizio giudiziario.
L’emergenza italiana passa anche attraverso questo cortocircuito.
Diversi, infatti, sono i presupposti e gli obiettivi di ciascuno di questi tre giudizi, cui per dovere di completezza andrebbe pure aggiunto il giudizio morale. Nonostante gli innegabili punti di contatto tra il giudizio storico e quello giudiziario, infatti, diversi sono gli strumenti con cui si persegue nell’uno e nell’altro la ricerca di quella verità che costituisce l’obiettivo di entrambi. Mentre la verità a fondamento del giudizio storico è verità per sua natura soggetta a continui processi di accertamento, rivisitazione, revisione - ragione per cui il revisionismo, come diceva Salvemini, è parte integrante del mestiere dello storico, la verità processuale oggetto di accertamento è completamente diversa.
La verità processuale conoscibile dal giudice, infatti, è vincolata e determinata non solo dall’oggetto di indagine, che è sempre parziale, ma anche dalle specifiche regole di acquisizione delle prove, della loro ammissibilità, della loro utilizzabilità, della loro legittimità. E quel particolare procedimento epistemologico che è proprio del processo ha come fine lo stabilire una verità processuale destinata a far stato, come dicono i giuristi, tra le parti. A differenza del giudizio storico, infatti, la verità processuale deve necessariamente cristallizzarsi una volta per tutte.
Procedimento giudiziario e procedimento storico
Se, quindi, la verità posta a fondamento di un procedimento giudiziario è diversa da quella propria del procedimento dello storico, il giudizio che si può trarre dai due procedimenti è intimamente diverso. Come diverso, rispetto al giudizio proprio di un procedimento giudiziario è il giudizio c.d. politico, che non necessità di quei presupposti, anche perché si tratta di un giudizio, quello politico, che attiene ai valori e non semplicemente ai fatti.
La crisi della giustizia italiana è anche frutto di tale grave sovrapposizione di piani.
Si dovrebbero pronunciare condanne sul singolo fatto di corruzione, sulla singola condotta, non sul sistema storico e politico che può aver facilitato la, o condotto alla, corruzione. Invece, troppo spesso, chi indaga, e poi chi giudica, si sente investito del dovere morale di portare alla sbarra non il corruttore, ma la corruzione, non il mafioso ma la mafia e così via discorrendo.
Tale atteggiamento non è figlio solo di un particolare momento storico. Gli esempi di un simile atteggiamento sono plurimi e recenti.
L'abnormità del caso Bergamo
Si pensi agli obiettivi, tra l’altro dichiarati, della Procura della Repubblica che indaga sulla gestione dell’emergenza Covid in Italia. Anche in questo caso si potranno - e si devono - esprimere valutazioni politiche, ma arrivare alla stima prossima alla precisione della singola unità del numero di morti che si sarebbero potuti evitare se ci si fosse condotti diversamente non solo è logicamente aberrante ma è giuridicamente improponibile.
La giustificazione di tale atteggiamento è stata deliberatamente trovata nella necessità di fornire una risposta all’opinione pubblica che chiede giustizia. Ed allora ecco che si da la stura a quella che Fassin chiama la passione del punire, dove risulta tristemente provato che le sole tragedie insopportabili sono quelle senza responsabili e dove quindi nulla lenisce il dolore come l’identificazione del colpevole. Che poi magari non si tratti del colpevole materiale ma di un colpevole purché sia testimonia l’imbarbarimento della percezione e dell’esercizio della giustizia.
Non è un caso, infatti, che della articolata struttura propria dell’accertamento processuale della responsabilità penale, che dovrebbe passare attraverso (rigorose) indagini, un processo equo ed incentrato sul principio garantista della prova che si forma nel contraddittorio tra parti che hanno (recte: dovrebbero avere) gli stessi poteri e lo stesso ruolo, ed una qualche forma di esecuzione della eventuale pena, di tale struttura, si diceva, viene indebitamente valorizzata la stigmate negativa dell’inchiesta, dove l’indagato viene anticipatamente sottoposto alla sanzione della riprovazione sociale. Per prender a prestito ed aggiornare le parole di Carnelutti non è più il processo ad esser esso stesso una pena, ma la sola indagine costituisce la sanzione peggiore.
Ma non basta.
La presunzione di non colpevolezza
Più volte si è tentato, e sempre vanamente, di portare l’opinione pubblica a meditare sulla compatibilità della custodia cautelare con i valori garantistici propri di un diritto penale liberale, ed in particolare della sua compatibilità con la presunzione di non colpevolezza. Anche su tale punto si avverte un vizio tipico del nostro sistema penale: quelle norme che vennero introdotte in fasi storiche particolari (si pensi all’introduzione nel 1974 dell’ipotesi di custodia cautelare per il rischio di reiterazione del reato, autentica contraddizione in termini rispetto alla presunzione di non colpevolezza) diventano elementi immutabili del nostro sistema, marcando tante micro eccezioni alle declamate ispirazioni garantiste dell’ordinamento penale.
Ed ancora, sempre sul piano delle indagini preliminari, l’indebita pubblicizzazione di parte degli atti processuali mediante la divulgazione anche a mezzo stampa: brandelli di documenti, ancor peggio: di conversazioni, che non hanno nemmeno la dignità di prova, che però vengono offerti al pubblico orientandone il giudizio. Come se fosse il lettore di un quotidiano o lo spettatore televisivo a dover esprimere un qualche verdetto.
Le vicende del processo, ed ancor peggio troppe volte gli esiti favorevoli all’imputato, catalizzano molto meno interesse, come se, o proprio perché, la pena immediata sia stata già applicata molto prima dell’effettivo accertamento, oltre ogni ragionevole dubbio, della responsabilità. Troppo prima. Poi, per carità, andrebbe rivisto nel suo complesso proprio l’impianto complessivo anche del modello processuale italiano: il pur lodevole tentativo di introdurre, al posto del rito inquisitorio del codice processuale del 1930, un modello adversarial, ispirato alle migliori tradizioni è non solo nato male, ma è stato via via storpiato.
Ne è venuto fuori un sistema per molti versi pleonastico: si pensi alla sovrapposizione del sistema delle impugnazioni precedenti (tre gradi di giudizio che erano probabilmente giustificabili nella particolare epistemologia del processo inquisitorio, che deve tendere all’accertamento della Verità maiuscola) al diverso sistema di impugnazione che avrebbe dovuto esser coerente con la diversa e più limitata epistemologia del processo accusatorio. Si pensi, ancora, al diverso valore che dovrebbe assumere lo stesso esame dell’imputato: nel modello inquisitorio naturalmente autorizzato a mentire pur di difendere sé stesso, nel modello accusatorio invece dovendo esser posto alla scelta tra tacere, senza alcuna inferenza di responsabilità, o parlare ed in tal caso trattato alla stregua di ogni testimone e quindi vincolato all’obbligo di dir la verità.
Resterebbe la fase dell’esecuzione della sanzione: la pena.
Tale ultimo segmento del sistema penale, che dovrebbe assumere un’importanza capitale proprio perché funzionale a definire il senso ed il fine della sanzione penale, è troppe volte lasciato a sé stesso. Non solo per le umilianti carenze strutturali, perché altrimenti la facile ed errata risposta sarebbe quella di costruire più carceri. Ma soprattutto perché troppe volte le modalità con cui la pena viene irrogata sono palesemente inumane e degradanti, per far ricorso a quelle modalità descritte come illegittime dalla stessa Costituzione repubblicana.
Se la classe politica oggi fosse capace di alzare lo sguardo oltre le reciproche strumentalizzazioni politiche, ed anziché baloccarsi dietro le rispettive esigenze di cassetta elettorale si prendesse la briga di pensare seriamente e coerentemente alle innegabili esigenze di riforma, anche la recente vicenda Cospito, avrebbe potuto esser colta nella sua essenza: la discussione contro un regime carcerario che nella sua prassi assume caratteri di pura vessazione che nulla hanno a che fare con la pena, persino con quella detentiva, ma altro non sono che rimodernate forme di quei tormenti descritti, con profondo umano e razionale disprezzo, da Alessandro Manzoni.
A tale di per sé già triste scenario si aggiunge la propensione del legislatore ad indulgere nella continua estensione dei confini del penalmente rilevante. Dal diritto penale massimo al diritto penale totale, come lo chiamava il compianto Sgubbi.
Diritto penale e prevenzione generale
La risposta ai singoli casi che provocano allarme sociale è la risposta approntata dalla introduzione di nuove ipotesi di reato, per fatti già in precedenza già punibili. Oppure, in alternativa, la sempre verde proposta di inasprimento delle pene.
Si torna alla funzione primordiale del diritto penale: la prevenzione generale, attuata tramite la minaccia legale della pena, minaccia indirizzata a tutti i consociati. Come se la semplice previsione di una sanzione ancor più severa, perché inasprita, assicurasse il pieno rispetto della pace sociale. La presunzione fatale che tale modo di legiferare sia un efficace deterrente per la commissione di reati è illusoria e ci pone su di un piano inclinato. Infatti, tale logica conduce al tragico punto di arrivo di cui parlava Bettiol: la pena più severa per ciascun tipo di reati sarebbe la pena di morte. Oggi sostituita dalla solo nominalmente più mitigata pena di trent’anni, come nel recente caso degli scafisti, ultimi untori puntualmente individuati.
Che poi, anche da un punto di vista meramente storico, basterebbe pensare che il Codice penale attuale, promulgato nel 1930 in pieno fascismo, si caratterizzava non solo per un evidente inasprimento delle pene, ma anche per una estensione della rilevanza penale delle condotte sanzionate grazie ad una definizione meno nitida della fattispecie incriminatrice. Ma questo non ha, evidentemente, impedito che di reati si sia continuato a parlare e si continui a parlare.
L’erroneo punto di partenza di tali approcci, contrari al garantismo di scuola liberale, dimenticano un profilo essenziale della natura umana.
Per limitarci alle origini proprie dell’Illuminismo, infatti, si deve alla splendida allegoria di Bernard de Mandeville, La favola delle api, l’acquisizione della piena consapevolezza di un tratto che caratterizza la natura umana.
Non esistono uomini perfetti, non esisto uomini che non sbagliano, e non esistono uomini che si conducono sempre e solo bene e che male non fanno. È il legno storto di cui l’umanità è fatta, diceva l’altro grande pensatore illuminista Kant.
A dover esser coerenti, da tali premesse emerge un ulteriore necessario postulato. I sistemi penali ci impongono di far di conto con una delle due possibili, ed alternative, concezioni del potere giudiziario e della verità.
Inquisitori o accusatori?
A volerci limitare ai due estremi di tale alternativa, da un lato si pongono i modelli inquisitori, che impongono la massima fiducia nel potere giudiziario e circa la sua capacità di accertare la verità di quel fatto che viene contestato. Dall’altro lato si pongono i modelli accusatori, che traggono da quelle premesse illuministiche, ovvero non solo dalla consapevolezza della natura errante dell’uomo ma anche dal tendenziale scetticismo che tale consapevolezza impone, una tendenziale sfiducia nel grado di certezza della verità accertabile in un processo, così come la tendenziale sfiducia nel potere giudiziario, come nei confronti di qualsiasi altro potere.
Questa sfiducia, figlia dello scetticismo della ragione, costituisce da sempre il caposaldo della cultura liberale in senso ampio e della cultura liberale che dovrebbe orientare ed ispirare il sistema penale e le sue garanzie. Dopotutto, se solo si leggesse La Democrazia in America di Tocqueville emergerebbe come in quella realtà idealtipica l’ordinamento sia caratterizzato dalla perenne tensione tra il momento della libertà (individuale) e il momento democratico (collettivo): in tale intima dialettica il grande normanno individua la funzione apicale del legista, ovvero dell’uomo di legge, capace di porre un chiaro limite a quel potere collettivo al fine di proteggere l’individuo.
Violenza, reato e vendetta
Sotto ambedue questi profili la legittimazione della norma penale è data dalla tutela del più debole. E tale legittimità, in conformità all’osservazione dello stesso Tocqueville, non è di tipo democratica, non proviene dal consenso della maggioranza, ma è legittimità garantista, nel senso di un insieme di limiti a tutela dell’indagato (nel rispetto della presunzione di non colpevolezza), dell’imputato (nel rispetto delle modalità di accertamento di quella verità processuale funzionale alla assoluzione o alla condanna), del condannato (nel rispetto delle finalità della pena e del rispetto dello stesso condannato che non perde gli attributi di uomo sol perché ritenuto responsabile).
Dopo tutto “garantismo” significa la tutela di quei valori o diritti fondamentali la cui soddisfazione, anche contro gli interessi della maggioranza, è lo scopo giustificante del diritto penale: l’immunità dei cittadini contro l’arbitrarietà delle proibizioni e delle punizioni, la difesa dei deboli mediante regole del gioco uguali per tutti, la dignità della persona dell’imputato e quindi la garanzia della sua libertà tramite il rispetto anche della sua verità.
La pena male necessario
La giustificazione del diritto penale, la sua giustificazione, deriva anche da questa consapevolezza: anche la pena è un male necessario. Per esser giustificata, però, non può prescindere dall’esser mite. Solo così può esser giustificata, solo così può esser condivisa. Solo così consente di non dimenticare l’altro grande lascito illuminista: l’uomo che non è mai mezzo, ma sempre ed in ogni caso un fine in sé.
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