Dopo la riforma costituzionale dello scorso 25 luglio, che ha comportato una riforma del sistema elettorale, i tunisini saranno chiamati alle urne. Il rinnovo del parlamento è fissato il prossimo 17 dicembre. La riforma costituzionale è stata voluta da Kais Saied, il presidente della repubblica. Due numeri possono dirci molto della riforma: la partecipazione popolare alla sua ratifica, di poco superiore al 31%; e il tasso di approvazione, al 96%. Cifre che raccontano di un paese in profonda crisi di fiducia nella sua classe dirigente. E altrettanto profondamente diviso sulla figura di Saied: salvatore del Paese per alcuni, dopo una decade di promesse, illusioni e crisi seguite alla caduta del regime di Ben Ali; restauratore dell’autocrazia per altri, che sta di fatto riportando il paese nordafricano ai tempi della dittatura.

È da quell’evento topico che dobbiamo partire. La Tunisia, piccolo paese marginale nell’ecosistema del mondo arabo, fu epicentro di uno degli episodi più importanti nella storia moderna della regione, ovvero le Primavere Arabe del 2010-11. Nel dicembre 2010, l’ormai celebre sacrificio di Mohamed Bouazizi, venditore ambulante vessato dalle corrotte autorità locali che si diede fuoco in segno ultimo di protesta, diede il via a dimostrazioni in tutto il Paese. Il 14 gennaio del 2011, Ben Ali, autocrate al potere dal 1987, lasciò la Tunisia. Il regime cadde. Fu la Rivoluzione dei Gelsomini. Sull’esempio tunisino, i regimi di Mubarak in Egitto, Saleh in Yemen, Gheddafi in Libia, Assad in Siria conobbero proteste di massa mai viste prima. In ogni paese del mondo arabo vi furono manifestazioni.

La scintilla del dicembre 2010

A dittatori che se ne andavano, non seguì un effettivo cambiamento del regime (come in Egitto). A movimenti di protesta pacifici, seguirono guerre civili che hanno smembrato stati e distrutto comunità nazionali (come in Siria, Libia, Yemen). In altri casi (Marocco, Giordania), il regime cooptò e assorbì le proteste.

In questo contesto, la Tunisia sembrò rappresentare un’eccezione. Il paese mostrò di possedere un’articolata società civile con spiccati elementi laici e liberali; una popolazione istruita; un sistema economico sufficientemente integrato ai ricchi vicini dell’Unione Europea. In più, il principale partito di opposizione al regime di Ben Ali, Ennahda (‘La Rinascita’, la locale franchigia dei Fratelli Musulmani), era sì islamista; ma da anni aveva intrapreso un percorso di laicizzazione sotto la guida di Rachid Ghannouchi. Storico e carismatico leader di Ennahda, Ghannouchi è tra i più sofisticati intellettuali della variegata galassia islamista. Prima e dopo la rivoluzione, ha trasformato progressivamente Ennahda in un partito simile alle formazioni cristiano-democratiche occidentali: a valori ispirati ad un credo religioso si affianca un’accettazione piena delle dinamiche politiche in uno stato laico.

Il presidente tunisino Kais Saied

Tuttavia, la storia della Tunisia degli ultimi dieci anni ha evidenziato quello che viene spesso sottovalutato riguardo le transizioni democratiche: sono difficili, e non sono affatto garantite. Gli elementi evidenziati in precedenza si sono rivelati insufficienti per portare a compimento l’istituzionalizzazione di una democrazia liberale. La società civile è sì presente e articolata; ma anche divisa, e dominata da alcuni attori, come il potente sindacato Ugtt (Unione Generale dei Lavoratori Tunisini) di spiccate tendenze marxiste, ostili ad una ulteriore liberalizzazione dell’economia e del mercato del lavoro. La popolazione è sì istruita per gli standard regionali, ma ciò non si è tradotto in una particolare produttività del settore manufatturiero o dei servizi, attirando di conseguenza pochi investimenti stranieri. Il sistema economico, più che integrato, si è dimostrato dipendente dal commercio estero, specie per quello che riguarda beni alimentari e approvvigionamento energetico.

Le colpe di Ennahda

Tutto questo è stato esacerbato dalla pochezza politica delle forze che hanno guidato il Paese dopo il 2011. Il principale imputato è appunto Ennahda. Dopo anni all’opposizione, affrontando spesso periodi di dura repressione e talvolta messo al bando dal regime, il partito di Ghannouchi non ha saputo trasformare l’enorme credito elettorale in effettiva amministrazione della cosa pubblica. Partito con più seggi in parlamento sia dopo le elezioni del 2014 che del 2019, non ha espresso politiche e programmi adeguati. Nida Tounes, emerso come principale contraltare ad Ennahda, si è rivelato soprattutto quello: ovvero, una coalizione di forze laiche spaventate da una possibile islamizzazione del Paese, ma senza un vero programma politico comune. Nel proliferare di partiti dopo la liberalizzazione del sistema politico, il risultato - paradossale e necessario - è stato quello di una grosse koalition di stampo tedesco proprio tra Ennahda a Nida Tounes, con conseguenti veti incrociati e una sostanziale immobilità politica.

 

I due partiti dominanti, appropriandosi delle principali cariche dello stato (alternando per esempio primi ministri ora dell’uno, ora dell’altro schieramento), non hanno saputo dunque affrontare le tre principali questioni al cuore dell’impasse tunisino. Primo, anni di malgoverno, corruzione e malaffare, tipici di un sistema patrimoniale come quello di Ben Ali, hanno infettato profondamente politica e società tunisine. I partiti e i loro membri, non scordiamo, sono espressione delle società da cui provengono. Un cambio netto non avviene per fiat costituzionale.

Secondo, la spaccatura chiave della società tunisina, ovvero quella tra il campo religioso e quello laico, non si è composta. Sono rimasti distanti e mutualmente diffidenti l’uno dell’altro. Non basta. Tentativi anche genuini delle forze politiche al governo di moderazione e compromesso hanno comunque favorito l’emergere di formazioni che continuassero a rappresentare determinate istanze sociali, economiche e culturali. La laicizzazione di Ennahda è un caso emblematico. Quando Ghannouchi ha dichiarato che Ennahda abbandonava uno dei dettami chiave dell’Islamismo - ovvero il rifiuto della separazione politica e religione - ecco le correnti più intransigenti del partito dare vita a formazioni proprie per mantenere invece tale fondamento. Inoltre, si assistette all’emersione di partiti salafiti, una corrente particolarmente rigida nel mondo sunnita islamista e avversa ai Fratelli Musulmani di Ennahda. Dal canto suo, Nida Tounes si disgregò nel 2018, lasciando spazio a formazioni più esplicitamente populiste come Qalb Tounes (Cuore della Tunisia), guidata dal magnate delle telecomunicazioni Nabil Karoui (soprannominato ‘il Berlusconi tunisino’).

Un Paese a rischio default

Terzo, l’economia conosce da un decennio una crisi sistemica. Una situazione difficile per il disposto combinato di cui sopra - anni di malversazione e incapacità della politica di fornire risposte adeguate. Sintomo estremo del malessere sociale derivato dalla disastrosa gestione dell’economia era l’altissimo tasso di giovani tunisini che non solo lasciavano il Paese, ma che si univano al sedicente Stato Islamico, risposta ultima ad un malessere profondo. Il covid fece il resto. Il Paese deve al Fondo Monetario (Fmi) circa 2 miliardi di dollari, su un prodotto interno lordo che non arriva a 40. Il bilancio governativo, sempre più in rosso, al 70% paga stipendi ad una enorme ed inefficiente macchina burocratica e sussidi per l’acquisto di beni alimentari. Il debito pubblico è quindi passato dal 68 all’89% del Pil; di questo passo entro il 2025 lo supererà. In una storia ben nota, il Fmi rimane l’ultima soluzione per elargire nuovo debito per far fronte alla crisi finanziaria, dato che i titoli di stato tunisini sono stati declassati da Moody al rating Caa1, ovvero Paese a rischio default. Come se non bastasse, l’Ucraina, principale fornitore di cereali dal Paese, è in guerra e incapace di esportare come in precedenza.

Fonte: World Bank

È dunque questa la situazione che Kais Saied ha affrontato come presidente della repubblica. Saied fu eletto come indipendente nell’ottobre 2019 con il 55% dei voti sconfiggendo Karoui. Avvocato costituzionalista ora sessantaquattrenne, era percepito come estraneo alla partitocrazia corrotta (come anche Karoui) accusata della crisi socio-economica. Infatti, Saied si rivelò in piena sintonia con parte della società tunisina: ovvero, la soluzione dei problemi del Paese passava dal porre fine al caos e al malgoverno di un indisciplinato e corrotto sistema partitico. Per fare ciò, Saied sciolse il parlamento il 25 luglio 2021, rimuovendo contestualmente il governo presieduto dall’indipendente Hichem Mechichi. Saied si appellò all’articolo 80 della Costituzione, che legittimerebbe il presidente a sospendere per 30 giorni la normale vita politica del Paese in caso di emergenza. La lettura dell’articolo da parte di Saied sarebbe per lo meno estensiva: l’articolo non menziona, per esempio, lo scioglimento delle camere, o un’azione puramente unilaterale del presidente. Tuttavia, in mancanza di una corte costituzionale, Saied non solo è riuscito a imporsi come l’uomo forte di Tunisi; ma anche ad estendere il periodo emergenziale ad oltre un anno, nominando un primo ministro e un gabinetto senza mandato parlamentare.

La svolta dalla riforma costituzionale

In ultimo, è appunto la riforma costituzionale dello scorso luglio. In essa, si impedisce ai partiti di correre come formazioni per le elezioni: sono invece i singoli cittadini tunisini a presentarsi. Per correre, i candidati devono ottenere come minino 400 firme, che non possono andare ad altri candidati. A questo si aggiunge l’abolizione del finanziamento pubblico: secondo alcuni analisti, questo favorirebbe candidati conosciuti - ovvero, di solito  più ricchi - a danno di candidati indipendenti privati non solo di aiuti economici per le loro campagne, ma anche di un supporto partitico, non più ammesso. In ultimo, quote in seggi per donne e giovani sono stati rimosse.

La limitazione dei partiti in Tunisia, certo non una loro abolizione, indica una chiara e preoccupante tendenza: la repressione di una vita politica pubblica fondata sulla società civile, di cui i partiti sono comunque espressione; e la conseguente appropriazione di tale spazio da parte di un esecutivo vieppiù isolato proprio dalla società civile, e quindi meno responsabile verso di essa. A questo si aggiunga la figura dell’uomo forte al comando, che Saied è ben felice di impersonare. Una combinazione di fattori questa che può portare certo alla fine del caos e del disordine generato e poi mal gestito da un sistema multipartitico senza una vera tradizione alle spalle. Ma che, altrettanto sicuramente, limiterebbe ulteriori sviluppi a medio e lungo termine della Tunisia a livello economico, politico, sociale.

È presto per dire se questa tendenza rappresenti sin d’ora l’anticamera di una necessaria deriva autoritaria. Di certo, le elezioni di dicembre cambieranno poco gli assetti di potere attuali, garantendo a Saied un parlamento senza forze politiche capaci di insidiarlo. Ennahda e Qalb Tounes hanno invitato al boicottaggio delle elezioni, e organizzato manifestazioni di protesta a Tunisi. Tuttavia, si sono presentati in poche centinaia. Una riconnessione delle forze politiche con il proprio tessuto sociale è un passaggio necessario che i partiti tunisini dovranno intraprendere. Pena l’irrilevanza politica, e la fine della Rivoluzione dei Gelsomini.